Il professor Richard Thompson (Regno Unito): “La molecola ha dimostrato di poter indurre una significativa riduzione del prurito e degli acidi biliari sierici”
Il 7 ottobre 2022 si è svolto a Pompei l’evento per il lancio in Italia del farmaco odevixibat, prodotto da Albireo Pharma, per il trattamento della colestasi intraepatica familiare progressiva (PFIC). Durante l’evento, denominato “Together hand in hand”, Richard Thompson, professore di epatologia molecolare presso il King’s College di Londra, ha fatto il punto sulle terapie disponibili per la patologia, mettendo a confronto gli approcci terapeutici tradizionali con i nuovi farmaci inibitori del trasporto ileale degli acidi biliari (IBAT), come obevixibat. Questo medicinale rappresenta una promettente alternativa non chirurgica per il trattamento di questa rara malattia genetica che colpisce uno su 50.000-100.000 bambini in tutto il mondo e che causa gravi alterazioni nella sintesi e nel trasporto della bile.
Il fegato e gli acidi biliari
Il fegato può essere considerato il più grande ‘laboratorio chimico’ del nostro corpo. Al suo interno vengono svolte circa 200 funzioni metaboliche fondamentali. È responsabile della gluconeogenesi (formazione del glucosio), della sintesi di trigliceridi e colesterolo, del metabolismo dei globuli rossi e della produzione di fattori di coagulazione come il fibrinogeno e la trombina. Funziona come deposito di emergenza per la vitamina B12, il ferro e il rame ed è in grado di demolire e catturare le sostanze tossiche. Interviene nel catabolismo di alcune proteine e nella sintesi di amminoacidi essenziali. Inoltre, grazie alla produzione della bile - un liquido vischioso di colore giallo scuro formato in prevalenza da acqua e acidi biliari - il fegato è in grado di scomporre i grassi e assorbire le vitamine liposolubili (A, D, E, K).
“Circa il 90-95% degli acidi biliari escreti dal fegato nel duodeno (prima parte dell'intestino tenue) viene riassorbito nell'ileo (ultima parte dell'intestino tenue) in un sistema fisiologico di ‘riciclo’ della bile che prende il nome di ‘circolazione enteroepatica’”, spiega il professor Thompson. “Nella PFIC questo meccanismo non funziona correttamente, così come la sintesi della bile e il suo trasporto nei dotti biliari”.
La patologia
Nella colestasi intraepatica progressiva familiare (PFIC), a causa di un difetto genetico, il fegato non è in grado di eliminare efficacemente gli acidi biliari che, di conseguenza, si accumulano nelle cellule epatiche e si riversano nel flusso sanguigno. A causa dell’alterato circolo della bile, il cui flusso dal fegato all’intestino tenue è ridotto, i grassi e le vitamine liposolubili vengono assorbiti con difficoltà e i bambini affetti da PFIC possono presentare ritardi nella crescita, problemi nutrizionali e rachitismo. I lipidi arrivano intatti e non processati fino all’intestino crasso e le feci mostrano un aspetto tipico, chiaro e untuoso (steatorrea). Gli acidi biliari in circolo provocano, nei piccoli pazienti, un prurito diffuso che spesso diventa un sintomo estremamente invalidante, in grado di impedire il sonno e le normali attività quotidiane. Una concentrazione troppo elevata di acidi biliari, inoltre, è nociva anche per le stesse cellule del fegato e finisce col provocare la formazione di vaste zone cicatriziali che danno origine a un processo di fibrosi epatica. All’inizio della malattia la condizione di fibrosi può essere reversibile, ma nei casi più gravi tende a progredire velocemente in cirrosi epatica: questa condizione comporta, oltre al grave danno epatico, anche altre complicazioni, come un aumento della pressione a livello della vena porta (ipertensione portale), la formazione di varici esofagee e gastriche, vomito ematico e ascite (accumulo di liquido a livello della cavità addominale).
I piccoli pazienti con malattia epatica progressiva, inoltre, possono avere difficoltà a rimuovere le tossine dal sangue e presentare un eccesso di bilirubina con conseguente ittero (colorazione giallastra della cute e delle mucose). I disturbi epatici possono essere estremamente severi e culminare nella malattia epatica terminale entro i 10 anni di vita del bambino.
Gli approcci terapeutici tradizionali
“Tradizionalmente, la gestione dei pazienti con PFIC prevede un approccio multidisciplinare, che comprende la riabilitazione nutrizionale, l'integrazione di vitamine liposolubili, il controllo farmacologico del prurito (con la somministrazione di acido ursodessossicolico e/o rifampicina) e, nei casi di progressione severa della patologia, gli interventi chirurgici come la diversione biliare e il trapianto di fegato”, spiega il professor Thompson.
La diversione biliare chirurgica esterna prevede che una parte di intestino tenue venga isolata e utilizzata come ‘tubo’ di comunicazione tra la cistifellea (dove viene conservata la bile in eccesso) e la parete addominale, dove viene creata una stomia. In questo modo la bile può essere portata all’esterno e raccolta in una sacca. Nella diversione biliare chirurgica interna, invece, la cistifellea viene messa in comunicazione direttamente con il colon per facilitare l’espulsione della bile tramite le feci. Questo intervento, in entrambi i casi, riduce il riassorbimento degli acidi biliari a livello dell’intestino tenue e ne impedisce il riciclo. La diversione biliare può fornire sollievo per mesi o addirittura anni, ma spesso non rappresenta una soluzione permanente. “Si tratta di un intervento veramente efficace in meno della metà dei pazienti e, a seconda della gravità, si opta direttamente per il trapianto”, afferma il professor Richard Thompson.
In caso di prurito estremamente severo o di malattia epatica terminale è consigliato il trapianto di fegato. Si tratta di un’opzione generalmente risolutiva per la PFIC ma non esente da rischi a breve e a lungo termine. Anche quando eseguito con successo, infatti, il trapianto esige che il paziente riceva la terapia immunosoppressiva per tutta la vita per prevenire il rigetto del nuovo fegato da parte dell’organismo.
Un nuovo farmaco per la PFIC
“Attualmente abbiamo a disposizione un’alternativa farmacologica alla chirurgia”, spiega il professor Thompson. “Odevixibat è un farmaco che blocca il riassorbimento intestinale degli acidi biliari inibendone selettivamente il trasporto verso l’ileo e aumentandone lo smaltimento attraverso il colon”.
Il farmaco, prodotto da Albireo Pharma, è stato recentemente approvato da AIFA e rappresenta un’opzione terapeutica efficace, capace di agire localmente sull’intestino tenue (con esposizione sistemica minima) e di fornire benefici clinici significativi per la vita dei pazienti e delle loro famiglie. Come dimostrato dallo studio internazionale PICTURE, pubblicato nel 2022 sulla rivista Orphanet Journal of Rare Diseases, infatti, la malattia, oltre a colpire duramente i pazienti, impatta molto negativamente anche sui familiari e sui caregiver.
I risultati di efficacia di odevixibat
Recentemente, Albireo Pharma ha annunciato i risultati positivi, a 72 settimane, di uno studio clinico globale di Fase III, randomizzato, in doppio cieco e controllato con placebo, ancora in corso per la valutazione del farmaco odevixibat nel trattamento della PFIC. Si tratta del più grande trial clinico mai condotto su pazienti affetti da questa patologia. “I risultati hanno mostrato che gli endpoint primari e secondari dello studio sono stati raggiunti: odevixibat ha ridotto significativamente i livelli sierici degli acidi biliari (sBA) e il prurito”, spiega il professor Thompson. “I bambini sono cresciuti in peso e in altezza e hanno riferito minori difficoltà nel prendere sonno e una minor frequenza di risvegli dovuti al prurito”. Gli eventi avversi si sono limitati a lievi disturbi gastrointestinali (diarrea, variazione nella consistenza delle feci) dovuti all’arrivo degli acidi biliari nell’intestino e nella maggior parte dei casi sono migliorati nel tempo.
“Questo farmaco rappresenta un potenziale cambiamento di paradigma nel trattamento della PFIC”, afferma Richard Thompson. “Serviranno altri studi per chiarire alcuni aspetti: l’eventuale efficacia della cosomministrazione di odevixibat con altri farmaci, come l’acido ursodesossicolico (UDCA); la possibilità, grazie alla terapia, di rimandare o evitare completamente il trapianto; la capacità di odevixibat di ridurre il rischio di carcinoma epatocellulare (HCC) e, in generale, la sicurezza a lungo termine del trattamento. Inoltre, sarà necessario approfondire le caratteristiche dei pazienti che non rispondono a odevixibat, per poter affrontare e gestire la loro situazione. In ogni caso - conclude il professor Thompson – questo nuovo farmaco rappresenta un primo grande passo verso un futuro di speranza per i pazienti con PFIC e le loro famiglie”.