Aghate Wakunga - drepanocitosi

I pazienti chiedono maggior consapevolezza: conoscenza della patologia, ma anche scelte riproduttive consapevoli

Lo scorso 20 novembre a Roma, presso la Sala Zucchi del Palazzo Giustiniani, si è svolto il convegno dal titolo La malattia drepanocitica. Nuove sfide e prospettive in Italia con le raccomandazioni della Commission di Lancet Haematology. L’evento, prendendo spunto da uno studio specifico pubblicato su Lancet Haematology, è stato l’occasione per approfondire le novità sui trattamenti clinici convenzionali e le nuove frontiere della ricerca scientifica, ma anche per ascoltare la voce dei pazienti che vivono con la drepanocitosi, o anemia falciforme (SCD). Alla tavola rotonda, in programma nel convegno di Roma proprio per discutere delle principali esigenze dei pazienti con SCD, ha partecipato anche Aghate Wakunga, Italo-Zambiana, in rappresentanza dell’European Sickle Cell Fédération (ESCF).

“Sono nata in Congo – dichiara Aghate – ma dal 2001 vivo in Italia, a Treviso, dove ho raggiunto una mia sorella. Con me in Italia ho portato anche la mia malattia, la drepanocitosi, per la quale sono stata subito seguita molto bene nel Centro di oncoematologia di Treviso. Dopo un po’ di tempo ho iniziato a lavorare e sono anche diventata mamma, nonostante la patologia. Nel 2018, in occasione della giornata mondiale dedicata ai donatori di sangue, mio figlio, che adesso ha 16 anni, sapendo della mia malattia e del mio bisogno di trasfusioni di sangue, è andato in internet e ha ringraziato tutte le persone che donano il sangue. Da quel momento è come se mio figlio mi avesse resa ancora più consapevole del fatto che riesco a vivere una vita piena solo grazie ai donatori di sangue. Così da quel giorno ho iniziato ad andare per le scuole, nelle aziende, nei convegni ed ovunque mi invitassero per parlare della mia patologia, dell’importanza di donare il sangue e per ringraziare pubblicamente tutti coloro che compiono questo gesto straordinario del donare. Ormai è quella che definisco la mia missione. Ho anche fondato l’Associazione Ushindi ODV Sickle Cell Victory, di cui sono anche Presidentessa, che ha proprio la mission di promuovere la conoscenza della drepanocitosi e sensibilizzare alla donazione del sangue.”

Dal convegno di Roma è emersa chiara l’esigenza di accrescere la conoscenza sulla SCD, sia nel personale sanitario, sia tra gli stessi pazienti e loro caregiver, ma anche tra la popolazione in generale. “La patologia di cui soffro – continua Aghate – è quasi del tutto sconosciuta, non soltanto alle persone comuni, ma anche a moltissimi clinici. Nella mia vita di tutti i giorni, ogni volta che conosco qualcuno e instauro un rapporto di amicizia ed inizio a parlare della drepanocitosi, sento lo sguardo smarrito ed incredulo di chi mi sta davanti. Tutti mi vedono sana, in forma e non capiscono, quasi fanno fatica a credere, che io possa stare anche malissimo e rischiare la vita per una crisi dolorosa acuta causata dalla SCD. La patologia non comporta tratti fisici distintivi e quindi nessuno si rende conto. Ogni volta per me è un ricominciare per spiegare cosa significhi vivere tutti i giorni con le complicanze, davvero tante, che la patologia comporta. Ancora più grave - direi anche pericoloso per la mia salute - è che un medico rimanga a bocca aperta quando pronuncio la parola drepanocitosi. Mi è capitato al pronto soccorso a cui ho dovuto ricorrere, qualche anno fa, per una crisi improvvisa. I medici che hanno preso in carico la mia situazione – sottolinea Aghate – non capivano perché io piangessi ed urlassi dal dolore. Credevano che esagerassi: non sapevano che i dolori che può procurare una crisi sono feroci. Il problema era che non conoscevano la mia patologia e non sapevano cosa fare. Per questi medici, ma anche per i medici di medicina generale, sarebbe opportuno, direi necessario, una formazione specifica sulle malattie rare. Questa formazione potrebbe salvare la vita di diverse persone.”

Aghate si sofferma molto sull’importanza della consapevolezza, sia per i pazienti, sia per i loro caregiver. “Oggi, grazie alle terapie come l’idrossiurea, riusciamo a contenere le crisi dolorose ed a vivere abbastanza bene. Tuttavia – dichiara Aghate – ritengo che la consapevolezza sia fondamentale: più cose conosciamo, migliori saranno le scelte che potremo prendere. Penso, ad esempio alle coppie a rischio [quelle in cui entrambi i partner sono portatori sani della patologia e per le quali c’è la probabilità del 25% di generare figli ammalati N.d.R.]. Grazie alle nuove terapie, che, come detto, hanno migliorato la vita di noi persone affette, una coppia a rischio può anche decidere di avere un figlio, nonostante una diagnosi prenatale che certifica lo stato di malattia del feto. Il problema è che molte coppie non sanno di essere a rischio e quindi scoprono solo dopo la nascita di avere un bambino malato. Questo genera confusione, sconforto e rifiuto della situazione patologica e non aiuterà il bambino a crescere in un ambiente sereno e ad avere un rapporto di accettazione della malattia. Per questo è fondamentale che il medico di famiglia inviti le coppie a fare il test del portatore sano. Allo stesso tempo, proprio in ragione del fatto che sempre più spesso ci sono nuovi nati con la drepanocitosi, è opportuno che si promuova in tutta Italia, oltre allo screening prenatale, anche lo screening neonatale. Infatti, è dimostrato – continua Aghate – che un intervento precoce con le terapie, come l’idrossiurea, può ridurre di molto i rischi, anche mortali, che può correre un bambino che nasce con SCD non diagnosticata. Dunque, nel convegno del 20 novembre abbiamo sottolineato l’importanza di promuovere in tutto il territorio nazionale anche lo screening neonatale.”

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