Prof.ssa Mariarita Bertoldi: “Occorre prestare maggiore attenzione alle forme meno gravi della malattia, nelle quali la terapia genica potrebbe essere ancora più efficace”
Anche con il motore che tossisce, poco carburante nel serbatoio o una scintilla appena percettibile, una macchina può ancora andare avanti. Allo stesso modo, in alcune circostanze, anche il corpo umano riesce a muoversi - seppur a fatica - nonostante una carenza enzimatica. “È il caso delle forme lievi e moderate del deficit di decarbossilasi degli L-aminoacidi aromatici (deficit di AADC), rara patologia neurometabolica ereditaria che, fino a pochi anni fa, sembrava non conoscere sfumature: o era devastante o non veniva diagnosticata”, afferma la prof.ssa Mariarita Bertoldi, ricercatrice e docente di Biochimica presso il Dipartimento di Neuroscienze, Biomedicina e Movimento (DNBM) dell’Università degli Studi di Verona.
“Negli ultimi tempi, grazie alla maggior consapevolezza della comunità scientifica nei riguardi della malattia, al crescente uso di test genetici avanzati (tra cui il sequenziamento dell’esoma e del genoma) e all’avvio di programmi di screening neonatale basati sul dosaggio del biomarcatore 3-O-metildopa (3-OMD), sono stati identificati molti più pazienti che presentano forme cliniche meno severe”, spiega la professoressa. Questi pazienti pediatrici manifestano un fenotipo definito “lieve” o “moderato”, con capacità di mantenere la posizione seduta e, in alcuni casi, con deambulazione autonoma, linguaggio funzionale e compromissione cognitiva solo parziale. “Sebbene, al momento, tali casi rappresentino una minoranza - circa il 12% del totale dei pazienti diagnosticati - sono in costante aumento e stanno assumendo un ruolo sempre più rilevante, anche in ottica terapeutica”, sottolinea la prof.ssa Bertoldi.
LA PATOLOGIA
Dietro a un nome quasi impronunciabile come “deficit della decarbossilasi degli L-aminoacidi aromatici” si cela una malattia altrettanto complessa, provocata da mutazioni bialleliche del gene DDC, responsabile della produzione dell’enzima AADC. “La carenza di questa proteina - spiega la prof.ssa Bertoldi - impedisce all’organismo di sintetizzare i neurotrasmettitori dopamina e serotonina, a partire dai loro precursori (rispettivamente L-Dopa e 5-idrossitriptofano)”.
La mancanza di questi neuromediatori fondamentali compromette profondamente la connettività cerebrale e determina l’insorgenza di un ampio spettro di sintomi neurologici e sistemici: dai disturbi del movimento (distonia, ipocinesia, ipotonia o atassia) alle disabilità intellettive, dai problemi psicologici (irritabilità e pianto frequente) alle alterazioni della respirazione e della motilità gastrointestinale, fino alle tipiche crisi oculogire, episodi parossistici caratterizzati da un’involontaria e incontrollata rotazione degli occhi, spesso verso l’alto, associata a rigidità muscolare, torsione del capo e manifestazioni di disagio o dolore.
I FENOTIPI: SEVERO, MODERATO O LIEVE
“Il fenotipo peggiore del deficit di AADC, che purtroppo è anche molto frequente, risponde alla cosiddetta “regola dei tre no”, ossia “no sit, no stand, no head control” [incapacità di mantenere la posizione seduta, di assumere la postura eretta e di controllare il capo, N.d.R.]”, afferma la professoressa. “Questo fenotipo estremamente severo si può riscontrare soprattutto nella popolazione taiwanese, dove, a causa del cosiddetto “effetto del fondatore” [fenomeno che si verifica quando una popolazione si origina a partire da un numero ristretto di individui portatori di varianti genetiche specifiche, N.d.R.], si osserva spesso la mutazione di splicing c.714+4A>T del gene DDC, associata a un quadro clinico particolarmente grave”. Proprio a Taiwan, l’incidenza del deficit di AADC è stata recentemente stimata in circa un caso ogni 32.000 nuovi nati, una cifra oltre trenta volte superiore alla prevalenza globale della patologia, che si attesta attorno a un caso su un milione di persone.
In Europa, diversamente da quanto accade in Taiwan, si osserva una maggiore eterogeneità in termini di mutazioni patologiche del gene DDC e, di conseguenza, una prevalenza moderatamente più alta di forme di deficit di AADC lievi e moderate. Negli ultimi anni, l’interesse della comunità scientifica verso queste varianti della malattia, storicamente poco riconosciute, si è intensificato. “La nostra review, pubblicata sul Journal of Inherited Metabolic Disease, si inserisce proprio in questo contesto e mira a far luce su questi fenotipi meno gravi, analizzandone le basi genetiche e la funzionalità enzimatica residua”, spiega la prof.ssa Bertoldi.
“È importante far conoscere anche le forme lievi e moderate del deficit di AADC e ricordarsi che questa patologia non comporta solo una carenza di dopamina, ma anche di serotonina”, sottolinea la professoressa. Il fatto che i pazienti meno gravi siano più abili dal punto di vista motorio, infatti, non significa necessariamente che ‘stiano bene’: una mancanza di serotonina può influenzarne negativamente l’umore e il comportamento e rendere difficili anche le routine più semplici nella vita di un bambino, come il momento del riposo, che da rituale rassicurante può trasformarsi in una sfida quotidiana fatta di agitazione, insonnia e irritabilità. “Incrementare la consapevolezza dell’esistenza di varianti meno gravi del deficit di AADC e riconoscere anche i segnali più sfumati della malattia è fondamentale per evitare ritardi o errori nella diagnosi e per indirizzare il trattamento. Proprio in quest’ottica si inserisce il nostro studio, che mira a offrire una panoramica completa delle forme meno severe della malattia, con l’obiettivo di contribuire a un miglioramento dell’inquadramento clinico e dell’approccio terapeutico”, precisa la ricercatrice.
IL TRATTAMENTO
Le opzioni terapeutiche attualmente disponibili per il deficit di AADC includono piridossina (vitamina B6), agonisti dopaminergici e inibitori delle monoammino ossidasi, ma il loro effetto benefico è purtroppo limitato a un numero ristretto di pazienti. “La recente introduzione della terapia genica ha segnato un punto di svolta nel trattamento della patologia”, afferma la professoressa Bertoldi. “Il primo bambino a essere trattato con questo farmaco in Italia è stato il piccolo Simone, che oggi ha cinque anni e ha fatto enormi progressi”.
La terapia genica eladocagene exuparvovec, approvata da AIFA nel 2023, si compone di un virus adeno-associato ricombinante di sierotipo 2 (AAV2) reso innocuo e modificato per trasportare miliardi di versioni funzionali del gene DDC, che contiene le istruzioni per la corretta produzione dell’enzima AADC. La terapia viene somministrata in un’unica infusione direttamente nell’area cerebrale del putamen, attraverso un intervento stereotassico. Questa iniezione intracerebrale consente ai neuroni di riacquistare la capacità di sintetizzare dopamina e serotonina.
“Sebbene il farmaco sia stato finora approvato solo per i pazienti con fenotipo severo, è lecito ipotizzare che la sua efficacia possa essere ancora più marcata nelle persone con malattia in forma lieve o moderata”, afferma la prof.ssa Bertoldi. “In questi pazienti, infatti, la presenza di un’attività enzimatica residua suggerisce la possibilità di una maggiore risposta al trattamento”. Questo aspetto sottolinea ulteriormente la necessità di aumentare la consapevolezza dell’esistenza dei fenotipi meno gravi di deficit di AADC, che altrimenti rischierebbero di rimanere misconosciuti o di essere diagnosticati tardivamente.
LO STUDIO
“La nostra indagine, condotta su scala internazionale, ha analizzato nel dettaglio i genotipi dei 348 pazienti con deficit di AADC identificati a tutt’oggi”, racconta la prof.ssa Bertoldi. “Di questi, 43 casi - selezionati sulla base dei criteri funzionali, motori e cognitivi pubblicati dal team dei ricercatori della dottoressa Pearson - presentavano un fenotipo meno severo: 17 pazienti manifestavano una sintomatologia lieve e 26 un quadro moderato”.
Le varianti genetiche di questi pazienti sono state classificate seguendo le linee guida dell’ACMG (American College of Medical Genetics and Genomics), ma lo studio è andato ben oltre l’analisi genetica ‘pura’. Attraverso un modello tridimensionale della proteina AADC, gli autori hanno introdotto un punteggio strutturale (3D-score) per stimare l’impatto reale delle mutazioni del gene DDC sulla funzionalità dell’enzima. Dai risultati emerge che il 70% dei pazienti con deficit di AADC di fenotipo lieve o moderato presenta un genotipo eterozigote composto, alterazione che sicuramente contribuisce allo sviluppo di un quadro clinico meno grave.
Nel deficit di AADC, infatti, l’efficienza dell’enzima AADC dipende da una sua caratteristica peculiare: per essere funzionale, questa proteina deve formare una coppia, cioè un dimero, composto da due catene polipeptidiche. Solo quando queste due parti si uniscono correttamente, l’enzima può svolgere la sua funzione nel metabolismo dei neurotrasmettitori.
“Quando si hanno mutazioni su entrambe le copie del gene DDC, la possibilità di formare dimeri funzionali dipende da quali tipi di catene polipeptidiche vengono prodotte e da quanto queste mutazioni geniche danneggiano la struttura dell’enzima”, spiega la prof.ssa Bertoldi.
“Nei pazienti omozigoti, cioè con due copie identiche della stessa mutazione, le due catene polipeptidiche sono uguali: si formerà un solo tipo di dimero, che sarà funzionale solo se la mutazione non è troppo dannosa. Se invece si presenta un’alterazione genetica capace di compromettere gravemente la proteina, come nel caso della variante c.714+4A>T, l’enzima non funzionerà affatto, e il quadro clinico sarà molto grave”.
Diverso è il caso dei pazienti eterozigoti composti, che presentano due mutazioni diverse, una per ciascuna copia del gene DDC. In queste persone l’organismo produce due tipi differenti di catene polipeptidiche che possono combinarsi tra loro in tre modi diversi: due diversi tipi di omodimeri (composti da due catene uguali) o un eterodimero (formato da due catene differenti). Se almeno uno di questi dimeri riesce a funzionare, anche solo parzialmente, il paziente può conservare una minima attività enzimatica e manifestare sintomi più lievi. Questa piccola quantità di enzima funzionante può fare una grande differenza.
“Esiste una soglia di funzionalità della proteina AADC al di sotto della quale il fenotipo di malattia diventa grave, e la conoscenza di questo livello minimo può supportare il lavoro clinico e permettere di arrivare prima alla diagnosi, indirizzando precocemente i piccoli pazienti verso la terapia più adeguata”, afferma risoluta la ricercatrice. Nei pazienti che producono solo un tipo di proteina AADC (omozigoti o emizigoti funzionali) è necessario che si mantenga almeno l’8% di attività enzimatica residua per evitare forme severe. Negli eterozigoti composti, invece, è sufficiente che una sola delle combinazioni possibili dell’enzima (cioè di dimeri) mantenga almeno l’1% di efficienza. Una variazione piccola, quasi impercettibile a livello biochimico, può quindi fare un’enorme differenza a livello clinico. Il dato forse più sorprendente riguarda i portatori sani di deficit di AADC, che hanno un’attività enzimatica pari al 35-40% del normale, valore non molto più alto di quello presentato da alcuni pazienti con fenotipo lieve.
Questo fatto ribadisce un concetto fondamentale: nel deficit di AADC, come in altre malattie, la soglia tra una condizione fisiologica e una patologica è estremamente sottile. Talmente sottile e delicata da richiedere non solo una valutazione genetica e clinica integrata, ma anche una presa in carico globale e multidisciplinare, capace di considerare il paziente nella sua interezza. In quest’ottica, sarebbe auspicabile valutare l’estensione della terapia genica anche ai pazienti con forme meno gravi di deficit di AADC, tenendo conto dell’attività enzimatica residua. Parallelamente, l’analisi genetica andrebbe affiancata a una valutazione funzionale, per offrire un quadro clinico più completo e utile ai fini terapeutici. Anche lo screening neonatale potrebbe giocare un ruolo cruciale nel riconoscere precocemente le forme atipiche della malattia, soprattutto nelle aree in cui questa è più diffusa, aprendo la strada a interventi tempestivi e su misura. “Una medicina personalizzata, fondata su una visione integrata del dato genetico, molecolare, clinico e umano appare oggi non solo auspicabile, ma necessaria”, conclude la prof.ssa Bertoldi.
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