Una forte presenza paterna è strettamente legata alla qualità di vita dei bambini: riduce lo stress nella coppia e migliora l'aderenza terapeutica
Padova – Che ad occuparsi della cura dei figli siano prevalentemente le madri è un concetto che racchiude secoli di storia e decenni di pregiudizi. Comunque la si voglia vedere riflette una semplificazione che certamente non è più attuale. A dimostrarlo sono moltissimi fattori, tra cui anche il desiderio dei padri di bambini con malattie rare di raccontare il proprio coinvolgimento attivo – tanto quanto quello delle madri – nella gestione quotidiana (terapie comprese) dei propri figli.
L'anno scorso abbiamo raccontato la storia di Pierluca, un musicista di Parma con un figlio di due anni e mezzo, Zeno, affetto da fenilchetonuria (PKU). Pierluca ha riferito i sentimenti contrastanti che ha provato – dallo smarrimento iniziale alla determinazione – e ha spiegato come ha imparato a far fronte alle difficoltà e come è riuscito a gestire la rigidissima dieta che il bambino deve seguire.
Un ottimo esempio di coinvolgimento paterno, insomma: è proprio questo il tema sul quale si sono concentrati gli psicologi Giacomo Gaiga e Anna Gazzera, dell'Unità Operativa Complessa di Malattie Metaboliche Ereditarie dell'Azienda Ospedale Università di Padova, nel loro recente studio pubblicato sul Journal of Innate Metabolism. Gli autori hanno analizzato una coorte composta da 30 padri e dai loro figli con PKU (di età compresa tra 6 e 12 anni) in cura presso il centro di Padova, con l'utilizzo di cinque scale che hanno valutato la salute, la qualità di vita, l'intolleranza all'incertezza, lo stress genitoriale e il disturbo d'ansia generalizzato. Hanno inoltre sviluppato un questionario ad hoc per misurare il coinvolgimento paterno nella gestione della malattia.
La PKU è una condizione che ha un impatto significativo sui pazienti e sulle loro famiglie, non solo per le difficoltà legate alla gestione di una dieta rigorosa a basso contenuto di fenilalanina (Phe), ma anche per il peso psicologico che comporta, poiché influenza il benessere emotivo, le dinamiche sociali e la qualità della vita in generale. La malattia richiede infatti un monitoraggio continuo e scrupoloso, e durante l'infanzia quest'onere ricade ovviamente sui genitori. Nonostante studi precedenti su altre patologie croniche abbiano evidenziato l'importanza del coinvolgimento di entrambi i genitori per il benessere psicologico del bambino, finora il ruolo dei padri è stato trascurato.
I risultati hanno confermato che la PKU ha un impatto moderato sulla vita quotidiana dei bambini affetti da questa malattia, che possono condurre una vita del tutto appagante. Anche i padri (fra i 32 e i 72 anni di età) non hanno riportato valori al di fuori del normale intervallo per i sintomi di stress, ansia o depressione: un dato che può essere attribuito al supporto fornito dal team metabolico dell'ospedale, che include diversi professionisti sanitari, inclusi psicologi. Per quanto riguarda i padri, la letteratura presenta evidenze contrastanti: alcuni studi hanno rilevato che i genitori dei bambini con PKU non sperimentano un maggiore stress a causa della condizione, mentre altri suggeriscono un deterioramento psicologico derivante dalle difficoltà di gestione della malattia.
I padri, nell'83,3% dei casi, hanno segnalato livelli relativamente buoni di coinvolgimento in quasi tutti gli aspetti: questi risultati sono in contrasto con uno studio sul diabete, che ha evidenziato la tendenza dei padri ad assumersi meno responsabilità rispetto alle madri. Fa eccezione la componente “responsabilità”: in questa sezione il 70% dei partecipanti ha affermato di non sentirsi responsabile per la trasmissione genetica della malattia al figlio.
Una piccola percentuale di padri ha evidenziato elevate difficoltà nella gestione quotidiana, che sembravano minare il loro senso di coinvolgimento: in particolare, quasi un quarto di loro ha espresso insicurezza sulla futura progressione della malattia, paura di perdere il controllo delle attività legate alla PKU e senso di inutilità nel supporto pratico e quotidiano. Il 10%, inoltre, ha espresso la sensazione che il proprio ruolo genitoriale fosse secondario rispetto a quello della madre nella gestione della malattia.
Lo studio ha analizzato anche il rapporto tra il coinvolgimento paterno e il controllo metabolico. I risultati hanno rivelato una correlazione negativa tra il livello di fenilalanina (Phe) e la componente di “controllo” percepita dai papà in relazione alla malattia del bambino. Ciò suggerisce che le due componenti possano influenzarsi a vicenda, con un maggiore senso di controllo da parte del padre associato a livelli più bassi di Phe. Poiché i livelli ematici di Phe riflettono l'aderenza al trattamento, si può ipotizzare che un maggiore coinvolgimento paterno nella gestione della PKU possa promuovere una migliore aderenza terapeutica.
Inoltre, è stato evidenziato come un livello più elevato di coinvolgimento paterno sia associato a minori livelli di stress, ansia e depressione nei padri: sembra quindi che ciò possa fungere da fattore protettivo contro il disagio psicologico sperimentato dai padri stessi. Una forte presenza dei papà può migliorare la qualità di vita dei bambini, aumentando allo stesso tempo la loro fiducia nel saper gestire l'incertezza che potrebbero sperimentare a causa della loro condizione. In una malattia cronica come la PKU – concludono gli psicologi – un maggiore coinvolgimento paterno, insieme a quello materno, promuove quindi relazioni familiari più forti, riduce lo stress percepito nella coppia e migliora la qualità di vita dei bambini.
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