Un recente studio dell’IRIB-CNR di Palermo raccomanda l’utilizzo del test genetico per la corretta individuazione della patologia nel genere femminile
Sebbene è giusto che siano considerati alla pari dal punto di vista giuridico, economico e costituzionale, uomini e donne per la medicina non sono ‘uguali’: si ammalano in modo diverso, spesso di malattie differenti, non presentano gli stessi sintomi e rispondono in modo dissimile alle terapie. Per questo, negli ultimi anni, si è fatta avanti la ‘medicina di genere’, capace di tenere conto di queste differenze biologiche, epigenetiche, psicologiche e socioculturali tra le diverse identità, non solo binarie. In questo quadro di maggiore attenzione e inclusività si inserisce un recente studio sulla diagnosi della malattia di Fabry nelle pazienti di sesso femminile, pubblicato sull’International Journal of Molecular Sciences e condotto dai ricercatori del Centro di Ricerca e Diagnosi di Malattie da Accumulo Lisosomiale dell’IRIB-CNR di Palermo.
UNA PATOLOGIA LEGATA AL CROMOSOMA X
La malattia di Anderson-Fabry, nota anche semplicemente come malattia di Fabry, è una patologia da accumulo lisosomiale, rara, progressiva e multisistemica, causata dal deficit parziale o totale dell’enzima alfa-galattosidasi A (Gal-A). Dal punto di vista eziologico, si tratta di una patologia legata al cromosoma X (X-linked) e determinata da mutazioni nel gene GLA, che codifica appunto per l’alfa-galattosidasi A. Il deficit funzionale di questo enzima causa un’alterazione del metabolismo di alcuni glicosfingolipidi, in modo particolare della globotriaosilceramide (Gb3), che si accumulano nei lisosomi cellulari, soprattutto all’interno dell’endotelio vascolare. Ciò provoca manifestazioni cliniche sistemiche e complicanze di natura renale, cardiaca e cerebrovascolare che possono anche portare a morte prematura intorno alla quarta o quinta decade di vita.
La sintomatologia della malattia di Fabry è estremamente eterogenea, soprattutto nel genere femminile, e può spaziare da manifestazioni aspecifiche, che concorrono al ritardo diagnostico - come febbre, nausea, diarrea, stipsi, cefalea, astenia e malessere generale - fino a sintomi più distintivi e caratteristici, come le acroparestesie (dolore urente a mani e piedi), l’ipoidrosi o l’anidrosi (difficoltà o totale incapacità di sudare), gli angiocheratomi (neoformazioni cutanee benigne di tipo vascolare) e alcune alterazioni oftalmologiche (cornea verticillata), oltre a gravi cardiomiopatie e nefropatie.
LO STUDIO
“Trattandosi di una patologia X-linked, le manifestazioni della malattia di Fabry possono differire tra uomini e donne: le pazienti di sesso femminile, in genere, non presentano l’intero quadro sintomatologico e solitamente il deficit enzimatico è meno grave”, spiega il dottor Paolo Colomba, responsabile delle ricerche relative alla malattia di Fabry del Centro di Ricerca e Diagnosi di Malattie da Accumulo Lisosomiale dell’IRIB-CNR di Palermo, e coordinatore del Gruppo diretto dal Prof. Giovanni Duro. Per indagare a fondo le differenze di genere nella Fabry e il diverso approccio alla diagnosi, i ricercatori dell’IRIB-CNR di Palermo hanno condotto uno studio retrospettivo prendendo in esame i campioni biologici, raccolti negli ultimi diciotto anni, di oltre 35.000 individui che mostravano una sintomatologia riconducibile alla malattia di Fabry. All’interno di questa popolazione, sono state individuate 827 persone che presentavano mutazioni genetiche responsabili della patologia, nella sua variante classica o in quella a esordio tardivo. I risultati ottenuti dallo studio di questi campioni hanno permesso di evidenziare alcune ‘criticità di genere’ legate all’utilizzo degli attuali test biochimici per la diagnosi della malattia di Fabry (test enzimatico e dosaggio del LysoGb3).
“Per comprendere le differenze nella diagnosi occorre, prima di tutto, capire come si manifesta la malattia di Fabry nei due sessi”, afferma il dott. Colomba. “Il gene GLA, in cui oltre 800 diverse mutazioni sono responsabili della patologia, si trova sul cromosoma X. La prima differenza risiede nel fatto che le donne hanno due cromosomi X, mentre gli uomini uno solo. A parità di mutazione, quindi, tutti i maschi manifesteranno pienamente la malattia poiché hanno una sola copia, difettosa, del gene GLA, situato sull’unico cromosoma X che possiedono, mentre le femmine eterozigoti, disponendo di due cromosomi X, possiedono anche una copia sana del gene GLA, e questo può influenzare il grado di espressione della malattia in funzione di un complesso meccanismo genetico noto come ‘lyonizzazione’”.
La lyonizzazione, dal nome della genetista britannica Mary Lyon, è un normale processo biologico che interessa tutte le femmine di mammifero e che consiste nell’inattivazione casuale di uno dei due cromosomi X presenti in ciascuna cellula. “A causa di questo meccanismo - sottolinea il dott. Colomba - in alcune cellule sarà attivo il cromosoma X con la copia alterata del gene, mentre in altre quello con la copia sana. L’espressione clinica della malattia di Fabry nella donna sarà quindi ‘a mosaico’ e dipenderà da quante cellule esprimono, in ogni organo, la copia mutata del gene GLA presentando, di conseguenza, una carenza dell’enzima alfa-galattosidasi A”.
CRITICITÀ DI GENERE NELLA DIAGNOSI DELLA MALATTIA DI FABRY
Un tempo, le patologie X-linked venivano semplicemente considerate ‘recessive’. Oggi sappiamo che la questione è molto più complicata e che la lyonizzazione è alla base dell’estrema eterogeneità fenotipica femminile di queste malattie. “Nel caso della Fabry, questo si traduce anche in una maggiore complessità diagnostica”, spiega il dott. Colomba. “Il sospetto della malattia viene avanzato in base ai dati clinici e a quelli anamnestico-familiari. L’ipotesi viene poi confermata attraverso analisi biochimiche e genetiche. I due esami biochimici normalmente utilizzati per la conferma di laboratorio (test enzimatico e dosaggio del LysoGb3), però, risentono anch’essi indirettamente del processo di lyonizzazione”.
Infatti, mentre negli uomini affetti da malattia di Fabry i livelli dell’enzima alfa-galattosidasi A in circolo sono sempre patologicamente bassi, nelle donne - a causa dell’inattivazione casuale del cromosoma X - l’attività enzimatica può essere sia deficitaria (in caso di inattivazione sbilanciata a favore della copia difettosa del gene) sia nella norma (in caso di espressione equilibrata di entrambe le copie del gene o sbilanciata a favore di quella sana). “I nostri risultati mostrano che in tutti i pazienti di sesso maschile l’attività enzimatica risulta inferiore al valore di riferimento di 3nmol/ml/h. Nelle pazienti di sesso femminile, invece, solo il 28,2% presenta valori patologici, a fronte di un 71,8% di persone con livelli nella norma”, dichiara il dott. Colomba.
La stessa disomogeneità tra i sessi riscontrata nel test enzimatico si verifica anche per il test dei glicosfingolipidi presenti nel sangue. “Quando l’enzima non funziona correttamente - spiega il dott. Colomba - le cellule accumulano globotriaosilceramide (Gb3). Questo glicosfingolipide non è idrosolubile ed è molto difficile da espellere. Per ‘liberarsene’ le cellule lo de-acetilano, cioè lo privano di un gruppo acetile (CH3CO−), trasformandolo in LysoGb3, un complesso idrosolubile che può essere espulso più facilmente e i cui livelli nel circolo ematico sono un chiaro indicatore del decorso clinico della malattia di Fabry e dell’efficacia delle terapie, almeno negli uomini”. Infatti, nei maschi il dosaggio del LysoGb3 è un test di conferma diagnostica estremamente attendibile: nel 100% dei casi è riscontrabile un accumulo patologico di LysoGb3 nel sangue. Dallo studio italiano è invece emerso che nelle donne con malattia di Fabry, mediamente, solo il 57,6% mostra valori di LysoGb3 alterati, mentre il 42,4% presenta livelli nella norma; se poi consideriamo le pazienti affette dalla forma a esordio tardivo, la percentuale di coloro che evidenziano valori patologici di LysoGb3 è soltanto del 19,4%.
Questa disomogeneità di risultati, sia per il test enzimatico che per il dosaggio del LysoGb3, rappresenta una grossa criticità. “Sebbene utilizzate normalmente per la conferma diagnostica della malattia di Fabry, queste analisi di laboratorio, a causa della lyonizzazione, sono inaffidabili per il genere femminile e potrebbero addirittura concorrere al ritardo nell’individuazione della patologia”, dichiara il dott. Colomba. “Per questo motivo, vogliamo sottolineare che, ad oggi, l’analisi genetica rappresenta l’unico test efficace per la diagnosi della malattia di Fabry nelle donne e che, pertanto, andrebbe affiancata ai due suddetti esami biochimici, anche per lo screening di popolazioni a rischio e per lo screening neonatale. Non possiamo e non vogliamo perdere queste pazienti, che hanno diritto, come gli uomini, a una terapia adeguata e allo screening familiare”.
La questione della diagnosi femminile della malattia di Fabry ribadisce l’importanza che la dimensione del genere sessuale assume nell’ambito della salute e di come sia imprescindibile tenerne conto per arrivare all’ambito traguardo di una medicina equa, inclusiva e personalizzata. “Abbiamo cominciato proprio con lo studio della malattia di Fabry, venticinque anni fa”, afferma il professor Giovanni Duro, direttore del Gruppo di Ricerca e Diagnosi delle Malattie da Accumulo Lisosomiale dell’IRIB-CNR di Palermo. “Oggi il gruppo è cresciuto e i nostri giovani ricercatori sono aggiornati e competenti, e proprio con questa patologia vogliamo lanciare una nuova sfida: non lasciare indietro nessuno”.
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