Il racconto straziante di una mamma che ha deciso di dare un senso alla perdita del proprio figlio fondando l’associazione “MC4 in corsa per la vita!”
Lo definisce un ‘mutaforma’ il sarcoma epitelioide che, nel settembre 2020, si è portato via suo figlio Matteo, un ragazzo milanese di appena 13 anni: da quel giorno, Mariagrazia ha un unico obiettivo: riscattare il suo ragazzo attraverso l’opera dell’associazione “MC4 in corsa per la vita!”, nata lo scorso 12 luglio per onorare, appunto, la memoria di Matteo. Una memoria di cui oggi Mariagrazia è la principale custode, perché della malattia che le ha strappato suo figlio non ha dimenticato neppure un particolare, dalla comparsa alle manifestazioni più efferate, fino agli ultimi dolorosissimi momenti.
“È cominciato tutto nel marzo del 2017, quando Matteo aveva 9 anni” racconta a OMaR. “Sono stata sempre una mamma attenta e coccolona e, mentre un giorno ce ne stavamo sdraiati, accarezzandogli i polpacci ho sentito sotto le dita una pallina che poteva sembrare una cisti ma che mi ha subito fatto ghiacciare il sangue, forse perché somigliava a quella che anni prima mia nonna aveva al seno e che si era rivelata essere un tumore”. Scossa dalla scoperta, Mariagrazia non perde tempo e subito porta il bambino a fare un’ecografia e poi una risonanza magnetica. “Venne fuori che quella massa della grandezza di pochi centimetri era l’effetto di un trauma, cosa tutt’altro che strana perché spesso, all’inizio, il sarcoma viene scambiato per il risultato di un evento traumatico”.
Il fatto che Matteo giochi a calcio non fa che avvalorare la tesi del trauma. Eppure Mariagrazia non demorde, dentro di sé avverte l’imperativo di approfondire le indagini, se non altro per escludere la presenza di una malattia grave. Su consiglio della pediatra, consulta un traumatologo che conferma l’ipotesi del trauma e suggerisce di rivedersi a settembre. D’altra parte l’ecografia e la risonanza non hanno dato esito di malignità e così Mariagrazia decide di fidarsi, ma quando torna dallo specialista, dopo l’estate, insiste: “Quella formazione non era parte del corpo di mio figlio e, trovandosi in superficie, poteva essere asportata a livello ambulatoriale. Temevo, inoltre, che mentre giocava a pallone potesse essere colpito da un calcio”. Il medico però tiene il punto: “Signora, è pur sempre un intervento, se fosse mio figlio lo lascerei stare”, consiglia.
La visita termina con un nuovo appuntamento a gennaio ma, nei mesi seguenti, le cose sembrano prendere una nuova piega. “La massa aveva cambiato morfologia e, mentre giocava a calcio, Matteo accusava dei dolori proprio nella parte del corpo interessata”, prosegue la mamma. “Io cercavo di proteggerlo coprendogli il polpaccio con strati di fazzoletti di cotone ma non serviva a nulla”. Quando tornano dal traumatologo, il 15 gennaio 2018, lui nota un cambiamento ma non lo ammette apertamente; dichiara, però, che Matteo può essere operato. Mariagrazia si sente sollevata: “Ce n’è voluta, ma alla fine si è convinto”, dice tra sé e sé. Una decina di giorni dopo, mamma e figlio sono nello studio di un chirurgo dell’Ospedale San Carlo Borromeo di Milano che, anziché decidere immediatamente di operarlo, chiede un ulteriore consulto a un collega ortopedico. Anche quest’ultimo, però, sente che il suo parere, da solo, non può bastare. “Dopo aver guardato Matteo, disse letteralmente che quattro occhi sarebbero stati meglio di due e suggerì di farlo visitare da un ortopedico oncologico dell’Istituto Gaetano Pini di Milano. Quelle parole mi traumatizzarono”, ricorda Mariagrazia. “Rimasi con gli occhi sbarrati nel vuoto dinanzi a Matteo. Era come se si stesse concretizzando un incubo”.
L’appuntamento è per metà febbraio ma Mariagrazia sente di non poter sostenere l’attesa. “Raccolsi allora tutta l’umiltà che ero in grado di esprimere e scrissi a questo ortopedico, spiegandogli che per me i giorni erano diventati anni, le ore mesi e i minuti giorni, e che non potevo aspettare fino a metà febbraio perché avevo già atteso troppo. Cinque giorni dopo, il 30 gennaio, ci ricevette privatamente”. Non appena Matteo si sdraiò sul lettino l’ortopedico gli tastò il polpaccio e, fissando i genitori con sguardo sconcertato, disse loro: “Ma qui è cambiato tutto, non è più la situazione dello scorso aprile, deve fare al più presto un’altra risonanza, un’ecografia e poi una biopsia. È necessario creare un puzzle per effettuare un intervento ad hoc, mirato”. L’8 febbraio Matteo viene ricoverato all’Istituto Ortopedico Gaetano Pini, effettua gli esami previsti e, otto giorni dopo, viene dimesso. “Il 28 febbraio ricevemmo una telefonata in cui ci venne chiesto di presentarci in ospedale il giorno dopo”, racconta sua madre. Non fanno in tempo a entrare nello studio medico che l’ortopedico fa: “Abbiamo nome e cognome della patologia, si chiama sarcoma epitelioide”. “Cos’è?”, chiede la mamma. “Un tumore”, risponde lui. “Benigno?”, replica lei. E lui: “No, purtroppo non è benigno”. “Rimasi pietrificata”, ricorda Mariagrazia. “Il dottore disse che la prima cosa da fare, in questi casi, era l’intervento chirurgico. Per fortuna il tumore era in superfice, sottocute”.
Il 15 marzo, due settimane dopo, Matteo viene operato. L’intervento va bene. I medici parlano di una formazione infida, con radici fin sopra al muscolo del polpaccio. Dicono che hanno preferito sacrificare parte del muscolo per evitare la diffusione delle cellule maligne. “L’importante è che l’intervento sia riuscito”, si limita a commentare Mariagrazia. Quando Matteo, che a questo punto ha 10 anni, vede la cicatrice sulla gamba si mette a piangere, ma è un ragazzino forte e presto riesce a tornare in pieno alla sua vita. “Si riprese velocemente, era felice. Tutto andò bene fino a dicembre dello stesso anno, allorché Matteo mi avvertì di avere l’inguine gonfio. Io raggelai ancora”, puntualizza la mamma. “Mio marito provò a tranquillizzarmi dicendo che si trattava di qualcosa non troppo infrequente tra i maschi in fase di crescita, ma io non mi calmai. Corsi, invece, al computer per avvertire l’Istituto Nazionale dei Tumori, che nel frattempo aveva preso in cura Matteo. Prescrissero immediatamente un’ecografia inguinale che diede un esito incerto”. Seguì una biopsia, effettuata tre giorni dopo Natale: “Matteo rivolse gli occhi al cielo per dire che era stanco, ma io lo rassicurai: anche questo andava fatto”.
Il 9 gennaio 2019, con la ripresa della scuola, la famiglia è avvertita della presenza di una recidiva ai linfonodi, da trattare con la chemioterapia. “A quella notizia mi azzittii”, dice Mariagrazia. “Il fiato divenne corto ed ebbi un attacco di panico. Siccome ero sola, andai subito dalla mia vicina di casa. Ero confusa, non riuscivo a far altro che a piangere”. Al momento del ricovero, Matteo chiede a sua madre: “Diventerò anche io pelato come tutti quei bambini che ho visto in questi mesi?”. I medici spiegano che si tratta di un tumore aggressivo che va affrontato con altrettanta aggressività: in programma ci sono cinque cicli di chemioterapia per poi procedere alla valutazione dei risultati. “Ogni ciclo durava otto ore al giorno per tre giorni”, spiega Mariagrazia. “All’inizio Matteo ebbe risultati ottimi, gli stessi medici erano sorpresi. Procedeva con la sua grande forza: anche se non poteva giocare a calcio andava comunque a vedere le partite per sostenere i suoi compagni, d’altra parte era il capitano della squadra. È sempre stato un ragazzo dedito al dovere e continuava a impegnarsi su tutto, anche a scuola, per lo meno quando gli tornavano le forze perché tutte le volte che gli veniva iniettata quella miscela chimica il suo colorito roseo diventava subito giallo. Dopo un po’ impari a riconoscerli i ragazzi che si sottopongono a chemioterapia: sembrano tutti uguali sotto l’effetto del trattamento”.
L’8 aprile termina la chemioterapia e il 15 maggio Matteo viene di nuovo operato: “Su 24 linfonodi 5 erano stati toccati dal tumore: 3 di questi erano andati in necrosi grazie alla chemioterapia e 2, ancora parzialmente attivi, dovevano essere asportati con un intervento chirurgico”, riferisce la mamma. Matteo è contento di come sta affrontando la sua battaglia contro la malattia. È determinato e su una lavagnetta scrive: “È l’ultima volta, ce la farò, non ho paura”. Nell’agosto dello stesso anno la famiglia trascorre l’ultima vacanza almeno in parte serena. Mariagrazia si gode il momento ma continua a sentire che c’è qualcosa che non va. “Un giorno di settembre, dopo l’inizio della scuola, vidi Matteo prendere una pomata. Mi disse che aveva preso una botta dove aveva subito l’intervento, tra l’inguine e l’ombelico. C’era un grande livido, che continuava a espandersi; lo scroto sinistro si ingrossava ma l’ecografia non indicava recidive, bensì la presenza di un probabile varicocele, niente di più. Io però stavo con il fiato sospeso, in allerta”. A poco a poco quel livido si espande fino al ginocchio e, in breve, Matteo non riesce più a camminare. Le creme non aiutano, non può neppure stare dritto per via del dolore e delle fitte, che continuano a tormentarlo. “Gli somministrarono la morfina, gli fecero la risonanza, la TAC, la scintigrafia. Soffriva tanto, ma dimostrava un’incredibile resistenza. Ci ha provato in tutti i modi”. Nessun esame diagnostica una recidiva, eppure Matteo non riesce comunque a stare in piedi e non può più andare a scuola. Viene ipotizzata un’infezione e fatta una biopsia per capirne la natura. “A fine novembre avemmo il risultato: fu mio marito a ricevere la chiamata, io a quel punto non ce la facevo più. Entrò a casa con una faccia più da morto che da vivo e mi disse che era necessario un nuovo ricovero. Matteo si mise a piangere: sentiva che tutto quello che aveva fatto era stato inutile”.
Il 25 novembre 2019 Matteo venne di nuovo ricoverato. Mariagrazia è sfinita, non ha più le forze: “Non volevo neanche andare in ospedale, ero stanca, avevo seriamente paura di perdere mio figlio”. Sono il papà e lo zio materno ad accompagnare Matteo all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, lei arriva poco dopo con suo padre. “Era come se fossi l’unica a capire come stavano veramente le cose”, riflette. “Forse era la mia percezione di mamma, mio marito cercava sempre di vedere il lato positivo. Avevano utilizzato l’arma più potente a disposizione, cos’altro potevano fare ora per Matteo?”. Ricomincia la chemioterapia, questa volta si tratta di dieci cicli, anche a occhio si vede che la situazione è in peggioramento. “Sono diventata la sua infermiera, ero io a fargli le medicazioni, ma mio figlio era stanco di tutti quei trattamenti”.
A gennaio del 2020 Matteo viene ricoverato presso la Casa Sollievo Bimbi dell’Associazione Vidas, il primo hospice pediatrico lombardo, ma ormai ha perso la speranza. Vi rimane fino all’arrivo del COVID, a fine febbraio. A sua madre dice: “Mamma, questa volta non è più come le altre”. Mariagrazia cerca di infondergli forza, ma è lei stessa allo stremo: “La gamba di Matteo era come bruciata - racconta - aveva le vesciche, le piaghe, si vedeva il sottocute; per non parlare del pube, ormai deforme. I dolori lancinanti richiesero la sedazione”. Nonostante questo, Matteo raccoglie le forze per affrontare la riabilitazione. “Riuscì di nuovo a salire e scendere dal letto e questo gli restituì coraggio, ma nel frattempo gli applicarono l’elastomero al catetere venoso”, prosegue la mamma. “Con la pandemia cominciarono anche le lezioni online e il poterle seguire gli diede energia. Ma ad aprile cominciò a gonfiarsi anche il piede e nessuna fasciatura riusciva più a contenere il dolore. Per lui era un nuovo fallimento e, a fine maggio, fu lui stesso a voler tornare alla Casa Sollievo Bimbi”.
A quel punto la situazione è chiara: la chemioterapia non ha portato gli effetti sperati. “Era evidente che Matteo non ce l’avrebbe fatta e io sbattevo la testa contro il tavolo”, prosegue Mariagrazia. A dicembre si profila la possibilità di effettuare una nuova terapia, ma le speranze sono quasi nulle. “Venne usata a partire da luglio come cura compassionevole, ma non portò effetti positivi”. A quel punto Matteo non riesce più a sostenere neanche le medicazioni e ha bisogno dell’ossigeno, ma agli amici che gli scrivono per sapere come sta lui risponde sempre “bene” o “benino”. “All’ultimo colloquio con i medici sono andati soltanto mio marito e mio fratello”, confessa la mamma. “Non c’era più nulla da fare: la morfina, con altri cocktail di medicinali, lo avrebbe stroncato e così hanno deciso di sedarlo. Il 4 settembre ha scritto un ultimo messaggio a una sua amica, digitando a fatica sulla tastiera del telefonino. Il 7 settembre lo hanno addormentato e il 10 è venuto a mancare. Ha sofferto tantissimo”.
Nella camera mortuaria, Mariagrazia fa una promessa al suo ragazzo: “Sarò io a portare avanti la tua battaglia contro il sarcoma epitelioide, affinché la tua sofferenza non sia stata vana”. Così, poco dopo, è nata l’associazione MC4 in corsa per la vita!: la sua missione è la ricerca ma tra i principali obiettivi c’è anche quello di fornire sostegno psicologico a tutti quei genitori e ragazzi che si trovano a fronteggiare un evento così tragico, perché, spiega Mariagrazia, “Vogliamo che nessuno resti da solo”.
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