Grazie all’iniziativa “Alport mai più soli”, i giovani pazienti e i loro genitori possono contare su momenti di confronto e di sostegno
C’è chi si sente incompreso dal resto del mondo e chi vorrebbe che i suoi genitori la smettessero di essere sempre così protettivi, chi cerca nuovi amici e chi non sopporta quelli che ti chiedono come stai e poi non ascoltano la risposta. Sono tanti gli spunti, le riflessioni, le emozioni che trovano voce durante gli incontri organizzati all’interno del progetto “Alport: mai più soli”: un’iniziativa promossa dall’associazione ASAL per offrire confronto e supporto psicologico ai giovani pazienti con sindrome di Alport e ai loro genitori in uno spazio protetto, gestito da professionisti. “Il progetto è nato nel 2021 per rispondere al sentimento di solitudine dei ragazzi e delle famiglie accentuato dalla pandemia”, spiega la psicologa Elisa Dessì, che conduce gli incontri. “È tutto iniziato online durante il lockdown e poiché questa esperienza, che ha presso le mosse durante l’emergenza sanitaria, si è rivelata vincente, abbiamo deciso di replicarla. Così ora siamo alla terza edizione del progetto, che per il 2023 partirà nel mese di settembre”.
Più nello specifico, ogni anno sono stati organizzati cinque incontri della durata di un’ora e mezza, ciascuno con cadenza quindicinale, rivolti a due gruppi specifici di persone: genitori di bambini e ragazzi con sindrome di Alport e giovani pazienti provenienti da tutta Italia. “Con gli adulti abbiamo trattato il tema della genitorialità, riflettendo sull’esperienza personale a partire dal momento della diagnosi: in particolare ci siamo soffermati su come la diagnosi abbia poi modellato il significato di avere un figlio con una malattia rara”, prosegue la psicologa. “È stato interessante notare come i genitori dei ventenni abbiano alle spalle un’esperienza di maggiore difficoltà e spaesamento rispetto a chi ha figli più piccoli, perché oggi la malattia è molto più conosciuta di un tempo ed esiste una dimensione associativa assente negli anni passati”. Un argomento molto dibattuto durante i vari incontri con i genitori è stato il rapporto con un figlio con una malattia rara. “Spesso la patologia prende il sopravvento, offuscando tutto il resto”, chiarisce Dessì. “Il rischio è guardare ai propri figli esclusivamente attraverso il 'filtro' della malattia rara, perdendo di vista le altre caratteristiche dell’individuo: un atteggiamento, quest’ultimo, che può determinare un sentimento di eccessiva protezione e condizionare le scelte educative”.
D’altra parte, i ragazzi con sindrome di Alport rischiano di appiattire l’immagine di sé stessi sulla presenza della malattia: un’attitudine e un’abitudine mentale che accomuna molti giovani pazienti, anche provenienti da situazioni e contesti diversi. “In questo caso, il fulcro principale degli incontri è stato quello di cominciare a vedersi oltre i limiti che la malattia impone. Pur partendo da difficoltà diverse, i ragazzi hanno subito trovato un modo per comunicare e tra loro si è stabilito un rapporto di condivisione e di sostegno reciproco”, dice ancora la psicologa. “Il problema è che a volte i ragazzi si sentono come se non avessero più alcun potere decisionale sulla propria vita, ma bisogna ricordare che, anche a fronte di alcune limitazioni, le cose vanno avanti lo stesso. Ed è proprio su questo che abbiamo riflettuto durante gli incontri”.
In qualche caso, poi, la partecipazione contestuale di genitori e figli ai rispettivi gruppi di appartenenza ha portato i suoi frutti, perché spesso è proprio il tentativo di mamma e papà di tenere i propri ragazzi al riparo da ogni pericolo e delusione a impedire a questi ultimi di fare passi avanti significativi verso l’autonomia. “È molto importante avere uno spazio protetto dove puoi aprirti e dare voce al conflitto che a volte senti anche all’interno della famiglia”, sottolinea Dessì. E poi c’è l’eterno tema delle aspettative nei confronti degli altri: “Comprendere che non tutti ti possono dare tutto quello che cerchi è fondamentale”, conclude la psicologa. “Anche di questo aspetto abbiamo discusso molto durante gli incontri: riuscire a capire come prendere il buono che ogni persona ti offre è un’abitudine molto sana e i nostri ragazzi hanno necessità di lavorarci su”.
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