Marco Paulli

Prof. Marco Paulli (Pavia): “Parliamo di un tumore difficile da identificare, soprattutto se in forma indolente e in fase iniziale: occorre che gli specialisti coinvolti lavorino in sinergia” 

Occhialini piccoli e rotondi, fronte alta e spaziosa e una folta barba: Rudolf Virchow è appoggiato al tavolo e annota alcune frasi sul suo taccuino. L’anno è il 1858 e il celebre patologo cellulare ha compreso il ruolo essenziale delle cellule nello sviluppo di una malattia, specialmente nella crescita e nella diffusione del tumore. Sempre presente in tutti i laboratori di anatomia-patologica, lo strumento delle sue ricerche è l’indispensabile microscopio, che ancora oggi consente di scrutare a fondo i campioni di tessuto, individuandone le peculiarità e contribuendo, così, al processo diagnostico di malattie come il linfoma cutaneo a cellule T (CTCL), un raro tumore della pelle che, nella sua forma più diffusa, la micosi fungoide, costituisce una complessa sfida per lo specialista che si trova a doverlo identificare.

MICOSI FUNGOIDE: UNA PATOLOGIA CON DIVERSE FASI DI EVOLUZIONE 

La micosi fungoide è il linfoma cutaneo a cellule T (CTCL) di più frequente osservazione nella popolazione generale”, afferma Marco Paulli, Professore Ordinario di Anatomia Patologica presso il Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Pavia, nonché Direttore della Struttura Complessa di Anatomia e Istologia Patologica della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia. “A differenza di quanto osserviamo in sede linfonodale, dove sono più comuni i linfomi di derivazione B-cellulare, nella cute predominano invece i linfomi di origine T-cellulare. In quest’ambito, la micosi fungoide e la sindrome di Sezary, entrambe forme di CTCL, costituiscono da sole più del 50-55% di tutti i linfomi cutanei a cellule T”.

La micosi fungoide, nella sua forma classica, si caratterizza per un andamento clinico relativamente indolente/cronico, con una ben definita progressione delle lesioni cutanee. “Inizialmente, nella cosiddetta fase “in chiazza”, la lesione (singola o multipla) ha un aspetto simile all’eczema, alla psoriasi o al lichen, con una cute di colore grigio-brunastro, desquamante (aspetto definito “a carta di sigaretta”)”, specifica Paulli. “Queste lesioni si localizzano tipicamente al tronco, alla regione glutea, alla radice degli arti e agli avambracci e mostrano, almeno all’inizio, una discreta sensibilità all’esposizione ai raggi solari e all’applicazione di steroidi topici, con risoluzione clinica temporanea. In seguito, le lesioni possono evolvere nella fase “in placca”, nella quale la cute appare maggiormente infiltrata, assumendo spesso un colore rosso-brunastro; in una quota variabile di pazienti la malattia prevede una possibile ulteriore fase evolutiva, detta “tumorale”, osservabile negli stadi avanzati della malattia, nella quale le lesioni cutanee appaiono come noduli/tumori, talora con ulcerazione; inoltre, in un numero limitato di casi, la malattia può estendersi al di fuori della cute, con un interessamento linfonodale e/o viscerale”. Dal momento della comparsa delle chiazze a quello della fase avanzata di malattia intercorre un periodo di tempo variabile ma generalmente lungo, che può durare anche anni.

UNA DIAGNOSI COMPLESSA

La micosi fungoide, pur essendo la forma di linfoma cutaneo a cellule T più frequente, non è comunque una patologia facile da diagnosticare, e questo vale soprattutto per la malattia in fase precoce, ossia “in chiazza”. “Nella micosi fungoide iniziale, la diagnosi differenziale con altre patologie infiammatorie e altri tipi di linfoma a cellule T può non essere immediata, a causa delle numerose analogie, sia cliniche che istopatologiche, tra queste diverse malattie”, continua Paulli. “A questo si aggiunge che nella fase “in chiazza” della micosi fungoide l’infiltrato cellulare linfomatoso [ossia gli ammassi di linfociti T che, nel caso del CTCL, infiltrano il tessuto cutaneo, N.d.R.] è spesso estremamente esiguo in termini quantitativi e non mostra particolari caratteri di specificità”.

Queste difficoltà sono tali che alcuni esperti affermano che la diagnosi di micosi fungoide in fase iniziale possa risultare in taluni casi impossibile sulla base del solo dato istologico; infatti, di fronte a un infiltrato di modesta entità si può al massimo formulare una diagnosi di “compatibilità”, quando siano almeno dimostrabili alcuni criteri diagnostici citopatologici di base. Le problematiche diagnostiche diminuiscono con la progressione clinica della malattia, che si accompagna alla presenza di un infiltrato linfomatoso più consistente e con caratteristiche citopatologiche di maggiore specificità.

“Come detto, formulare una diagnosi rapida e certa di micosi fungoide in fase iniziale non è sempre agevole, specie in mancanza di uno stretto coordinamento tra il dermatologo che incontra il paziente e il patologo che deve condurre l’esame istopatologico del campione bioptico”, osserva il prof. Paulli. “Un ulteriore ostacolo alla diagnosi può essere determinato dal tipo di approccio bioptico, spesso consistente in una “punch biopsy” (letteralmente biopsia con punzone). Le ridotte dimensioni (pochi millimetri) del campione, spesso gravato dalla presenza di artefatti da prelievo (schiacciamento da pinza e modificazioni secondarie all’infiltrazione locale di anestetico), non facilitano l’esame istopatologico. In queste condizioni, l’interpretazione delle caratteristiche citologiche dell’infiltrato può risultare difficile e molta dell’efficacia diagnostica è in buona parte affidata al livello di esperienza e competenza del singolo patologo”.

OCCORRE SINERGIA TRA DERMATOLOGO E ANATOMO-PATOLOGO

Anche se poco conosciuto dal grande pubblico, l’anatomo-patologo rappresenta una figura chiave nel tradurre in una diagnosi istopatologica definitiva quello che è solo un sospetto clinico, ma non è comunque ‘un indovino’: l’efficacia dell’esame istopatologico non può prescindere, oltre che dalla già citata esperienza dello specialista che lo esegue, dalla qualità del campione bioptico e, non ultimo, dalla completezza dei dati clinico-laboratoristici, indispensabili per contestualizzare il quadro morfologico.

Nel caso del linfoma cutaneo a cellule T quali possono essere, quindi, le possibilità di migliorare l’efficacia diagnostica complessiva? “Credo che il primo passo sia quello di promuovere una più stretta sinergia operativa tra il patologo e il dermatologo”, sottolinea il Prof. Paulli. “È indispensabile che queste figure imparino a dialogare, e che il patologo possa sempre disporre delle immagini della lesione clinica, corredate da una serie di informazioni basilari (ad esempio tempo di insorgenza, aspetti di regressione, etc.) per una corretta correlazione clinico-patologica. È poi importante prendere coscienza che non si deve formulare una diagnosi di micosi fungoide sempre e ‘ad ogni costo’. In caso di dubbio o di quadri incerti è necessario essere molto chiari, ammettendo l’impossibilità di giungere a una diagnosi certa e la necessità di ricorrere a un eventuale successivo controllo bioptico di conferma”.

A fronte di queste difficoltà, va detto che il patologo può anche avvalersi delle cosiddette indagini “ancillari”, ossia di analisi di immunoistochimica e biologia molecolare che, seppur da sole non siano determinanti per la diagnosi, gli forniscono comunque informazioni di estrema utilità nel corroborare un eventuale sospetto di malattia. “Per quanto concerne l’immunoistochimica, l’impiego di pannelli anticorpali estesi per la linea T è fondamentale al fine di evidenziare eventuali anomalie di profilo antigenico nelle cellule linfomatose, anche se fenomeni di perdita antigenica possono osservarsi anche in alcune patologie infiammatorie”, puntualizza l’esperto. 

“Negli ultimi anni, poi, si conferma come sempre più rilevante il ruolo delle indagini di biologia molecolare”, aggiunge il prof. Paulli. “Semplificando, queste indagini sono finalizzate a dimostrare che le cellule dell’infiltrato linfomatoso sono tutte di uno stesso tipo, ovvero appartengono ad un unico clone cellulare mutato in senso tumorale (cosiddetta popolazione monoclonale)”. Nello specifico, quindi, l’introduzione delle più recenti tecniche di sequenziamento del DNA (NGS, Next Generation Sequencing) nello studio dei linfomi cutanei a cellule T consentirà, nel breve-medio termine, di migliorare significativamente la capacità di identificazione delle popolazioni T clonali, riducendo la numerosità dei falsi negativi e delle lesioni pseudoclonali. Il vantaggio insito in questa tecnica è quello di poter essere impiegata efficacemente anche su biopsie contenenti un numero relativamente limitato di elementi linfomatosi. “Va però precisato che, ad oggi, non tutte le anatomie patologiche dispongono di questa metodologia di analisi, e che l’affidabilità della stessa è direttamente proporzionale al grado di expertise e alla dotazione tecnologica dei laboratori che la impiegano”, afferma Paulli. “Queste problematiche portano alla necessità che, in un prossimo futuro, si provveda ad una rivisitazione degli attuali modelli organizzativi, con l’identificazione di centri di riferimento ad alta specializzazione, così da favorire non solo una migliore standardizzazione dei metodi di analisi molecolare e una più alta riproducibilità dei risultati, ma anche un doveroso controllo dei costi gestionali, in riferimento soprattutto alle indagini NGS”.

“Fatte salve queste considerazioni generali – precisa l’esperto – è evidente che il gold standard diagnostico dovrebbe prevedere la creazione di un ambulatorio condiviso tra anatomo-patologo, dermatologo ed ematologo, così che il paziente con sospetto clinico di linfoma possa essere approcciato in un contesto multidisciplinare. Purtroppo, nella ‘real life’ questo percorso virtuoso non è sempre percorribile, ma ciò non toglie che i vari professionisti coinvolti nella diagnosi di linfoma cutaneo debbano comunque impegnarsi a mettere in pratica un percorso condiviso, sviluppando un’abitudine al dialogo e allo scambio di informazioni, conditio sine qua non per una formulazione diagnostica precisa”. 

L’IMPORTANZA DI INVESTIRE NELLA FORMAZIONE DEGLI SPECIALISTI

“Nell’attuale quadro epidemiologico – afferma Paulli – i linfomi in generale, non solo quelli cutanei, hanno la connotazione di malattie emergenti. Gli studi sulla distribuzione e sull’incidenza dei linfomi cutanei a cellule T sono ancora carenti e sono spesso riferiti a esperienze nazionali non sempre paragonabili per modalità di selezione e arruolamento dei pazienti. Pur con tali limiti, sulla base di alcuni dati osservazionali, si è stimato che in Italia siano circa 9000 le persone che ogni anno risultano affette da micosi fungoide. Ci troviamo quindi di fronte a numeri non trascurabili che evidenziano la necessità di una robusta presa in carico del problema da parte del nostro sistema sanitario, dato che, tra l’altro, la micosi fungoide è un linfoma a decorso spesso indolente, e quindi con problematiche in parte simili a quelle di una patologia cronica”. 

Ciò detto, i linfomi cutanei rimangono comunque un ambito specialistico di particolare complessità, con problematiche diagnostiche e terapeutiche ancora irrisolte. “È quindi prioritario puntare sulla formazione sia dei clinici (dermatologi, ematologi, radioterapisti) che dei patologi, rendendoli consapevoli della necessità di definire dei percorsi diagnostico-terapeutici specifici per questa peculiare categoria di pazienti”, puntualizza ancora Paulli. “In quest’ottica, sarà importante un’opera di sensibilizzazione sul tema rivolta a tutti gli specialisti coinvolti nel percorso diagnostico, e in particolare ai dermatologi, i quali sono spesso i primi a venire in contatto con un potenziale paziente con linfoma cutaneo. Dal momento che una diagnosi certa di CTCL richiede una validazione basata su un’articolata serie di approfondimenti, anche immuno-molecolari, si deve creare un canale di comunicazione efficace tra il dermatologo e tutte le altre figure professionali coinvolte, facilitando una rapida presa in carico del paziente da parte dei centri di riferimento per la patologia”.

“Per concludere – rimarca il prof. Paulli – nel breve-medio periodo, gli obiettivi dovranno essere quelli di sensibilizzare non solo gli addetti ai lavori, ma anche la popolazione generale sulla rilevanza di questo peculiare sottogruppo di linfomi cutanei, sottolineando l’importanza di un approccio diagnostico condotto su base multidisciplinare. Il miglioramento del livello delle capacità diagnostiche di clinici e patologi e un’adeguata standardizzazione delle metodologie di analisi molecolare saranno la chiave di volta per formulare una precisa e tempestiva diagnosi di linfoma cutaneo a cellule T. A tal proposito, giova riportare le conclusioni di un recente studio europeo, in cui si stima che, ancora oggi, sia di circa 2-3 anni il ritardo medio nell’identificazione della malattia: un tempo ovviamente inaccettabile, sia per il medico che, soprattutto, per il paziente”.

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