In occasione del 5 giugno FIABA onlus, da anni attiva nella promozione della cultura dell’accessibilità, ci racconta l’impegno per un ambiente davvero inclusivo. Intervista al Presidente Stefano Maiandi
Istituita nel 1972 dalle Nazioni Unite, in seguito alla storica Conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano, la Giornata Mondiale dell’Ambiente si celebra ogni anno il 5 giugno. È un’occasione preziosa per riflettere sull’urgenza di proteggere l’ambiente, valorizzarlo e promuovere comportamenti responsabili da parte dei cittadini, della comunità e delle istituzioni. Un impegno globale che punta a conciliare benessere umano, sviluppo economico e sostenibilità.
Durante questa giornata, in tutto il mondo si organizzano numerose iniziative, tra cui conferenze, workshop, attività di pulizia, piantumazioni di alberi e campagne educative. Sono attività che mirano a coinvolgere il pubblico e a promuovere comportamenti ecologicamente responsabili. I governi, le organizzazioni non governative, le scuole e le comunità locali rivestono un ruolo centrale nel diffondere il messaggio e nel promuovere azioni concrete.
Eppure, quando si parla di natura e accesso agli spazi, c’è un aspetto troppo spesso trascurato: l’inclusione delle persone con disabilità. Sentieri naturali, spiagge, parchi urbani o aree protette, sono davvero accessibili a tutti?
Con Stefano Maiandi, Presidente di FIABA onlus, abbiamo parlato di barriere, ma anche di soluzioni concrete, visione e diritti. Perché rendere la natura accessibile significa costruire un ambiente migliore, non solo per chi ha una disabilità, ma per l’intera società.
Perché è importante parlare di accessibilità ambientale?
“Le rispondo con una provocazione. Perché nel 2025 dobbiamo ancora parlare di rendere accessibili i sentieri, i parchi, le spiagge per le persone con disabilità? Perché, le persone con disabilità non sono persone? È proprio da qui che dobbiamo partire se vogliamo affrontare seriamente il tema", chiarisce Maiandi. "Ancora oggi ci troviamo a discutere di barriere architettoniche, quando il vero problema sono le barriere culturali. Le più difficili da abbattere, perché sono invisibili, radicate e creano discriminazioni. Abbiamo delle leggi che ci danno degli orientamenti, come la legge 13 del 1989 , ma è una norma ormai vecchia non più attuabile ai nostri tempi. Se vogliamo eliminare davvero le barriere architettoniche, dobbiamo adattarla alle esigenze attuali con delle specifiche. Le do un dato. Nei prossimi cinque anni, il 30% della popolazione attiva in Italia avrà più di 65 anni. Questo ci dice che progettare l’ambiente, anche quello naturale, con attenzione alla fragilità e non solo alla disabilità, non è un favore per una minoranza, ma una scelta strategica per il futuro. Parliamo anche di malattie rare, fragilità temporanee, disabilità invisibili. E allora dobbiamo chiederci: cosa significa davvero accessibilità? Non basta abbattere un gradino. Dobbiamo ripensare gli spazi a 360 gradi e solo dopo parlare di barriere architettoniche in senso stretto. Con un buon architetto, un buon ingegnere, un ottimo geometra e una vera visione, i problemi si risolvono. Serve la volontà di farlo. Serve un cambio di paradigma, perché l’ambiente è di tutti e come tale va progettato”.
Per la sua esperienza, ci sono esempi virtuosi? È davvero possibile progettare ambienti naturali accessibili?
“Sì, assolutamente. Le racconto un’esperienza recente: qualche settimana fa ho partecipato alla premiazione del concorso fotografico promosso dalla Fondazione Obiettivo Terra. In quell’occasione, FIABA ha collaborato alla valutazione dei parchi accessibili e inclusivi e il premio è andato al Parco di Marsala. Ciò dimostra che la cultura dell’accessibilità sta iniziando davvero a diffondersi, a permeare la nostra società. E sa perché? Noi italiani siamo un popolo un po’ particolare. Tendiamo a non considerare un problema ciò che non ci riguarda direttamente. Se io cammino bene, non vedo un gradino come un ostacolo. Ma quel gradino, per mia madre o per una persona in carrozzina, può essere una barriera insormontabile. La verità è che spesso prendiamo in considerazione un tema solo quando ci tocca da vicino, oppure quando una norma ce lo impone. Parlando di ambiente e disabilità, l’Agenda 2030 dell’Unione Europea ha stabilito degli obblighi chiari per tutti gli Stati membri, Italia compresa, in cui le spiagge devono essere accessibili anche alle persone con disabilità. C’è stata molta confusione su questo tema, soprattutto quando si è parlato di concessioni balneari e adeguamento alle normative europee. Ma in mezzo a tutto questo dibattito c’è una cosa chiara, una norma tecnica, recepita dallo Stato, che stabilisce che tutte le strutture, comprese le spiagge libere e attrezzate, devono essere accessibili, anche per le persone con disabilità. E “dire anche” fa la differenza. Oggi molti Comuni si stanno attivando, pubblicando bandi per realizzare spiagge per disabili e non c’è cosa più brutta, perché le spiagge si fanno per le persone, per tutti. Abbiamo contributo alla progettazione di ambienti marini negli ultimi tempi e ci sono stati alcuni gestori balneari che hanno sposato pienamente la politica dell’accessibilità, non tanto pensando alle persone con disabilità, ma ai loro genitori anziani. Siamo riusciti a far passare l’idea che l’accessibilità è per tutti, anche per permettere a un genitore di stare al mare insieme alla sua famiglia”.
Quali progetti state portando avanti come FIABA per promuovere l’accessibilità ambientale? C’è qualcosa di nuovo all’orizzonte?
“Stiamo lavorando con Federbalneari Italia e con realtà legate alla blue economy, quindi a tutto ciò che riguarda la valorizzazione e la bellezza del mare. Il nostro obiettivo è promuovere una vera cultura dell’accessibilità su tutto il litorale italiano, con un’attenzione particolare, al momento, al litorale laziale. Il punto di partenza sono i comuni, stiamo cercando di far ripartire da lì un messaggio che arrivi non solo alle istituzioni, ma anche al tessuto economico locale. Perché una struttura accessibile, oltre a essere inclusiva, genera ricchezza, anche in termini economici. È un’opportunità per chi lavora sul territorio, non una limitazione. Sono quindi ormai un paio d’anni che portiamo avanti questo principio dell’accessibilità all’interno di tutte le linee dei comuni costieri, per inserire l’inclusione in ogni fase della progettazione. Ma attenzione, per progettare bene, occorre partire dalla conoscenza delle condizioni umane. Non basta pensare alla carrozzina. È un errore comune, si progetta per una disabilità e si ignorano tutte le altre. Ci sono persone con disabilità invisibili, esigenze meno manifeste ma comunque reali. Se non conosco chi vivrà o utilizzerà quello spazio, come posso renderlo davvero accessibile e inclusivo? Da qui si deve partire, dalla conoscenza delle persone, delle diverse condizioni di disabilità, ponendo sempre al centro la persona nella sua universalità. Per me, le persone diventano “disabili” nel momento in cui progettiamo male, quando non ci poniamo il problema dell’accessibilità per tutti. Se uno spazio è pensato per una persona in carrozzina, sicuramente andrà bene anche per me”.
Vi è mai capitato di collaborare con enti pubblici o parchi nazionali per migliorare l’accessibilità nei parchi, nei sentieri naturali o aree protette?
“Quella dei parchi e dei sentieri è una delle sfide più complesse e anche la più recente su cui ci stiamo concentrando. Con la Fondazione Univerde abbiamo avviato attività di sensibilizzazione sull’accessibilità anche in ambito naturalistico, per portare avanti questa cultura condivisa dell’accessibilità all’interno varie realtà amministrative e non. Quella sui parchi è un’attività su cui vorremmo provare a operare. Ad esempio, abbiamo già lavorato su ambiti urbani molto complessi, come edifici storici e musei difficili da raggiungere anche per persone senza disabilità evidenti. Io stesso, che non ho particolari problemi di deambulazione, a volte faccio fatica ad accedervi. E ci siamo chiesti, come può arrivarci una persona in carrozzina? In uno di questi casi, grazie alla collaborazione con l’amministrazione comunale, siamo riusciti a elaborare un piano di accessibilità architettonica ben strutturato. Lo stesso modello si può applicare anche ai parchi naturali o archeologici, purché si faccia un lavoro di mappatura. È un lavoro di analisi, di fotografia della realtà esistente, ma che deve poi tradursi in un progetto concreto. Altrimenti resta un pezzo di carta. Il punto non è solo “fotografare”, è rendere realizzabile. Ecco la sfida che ci siamo dati come FIABA, trasformare la cultura dell’accessibilità da dichiarazione d’intenti a progetti attuabili, condivisi con i territori e con le persone. Solo così si passa dalla teoria ai fatti”.
Incontrate ancora molte resistenze o comincia a esserci maggiore apertura a livello locale?
“No, devo dire che qualcosa sta cambiando. Cominciamo a incontrare curiosità e la curiosità è già una forma di intelligenza. Oggi le amministrazioni locali, così come molti gestori di strutture, stanno mostrando una maggiore sensibilità sul tema dell’accessibilità. Certo, non è ancora la regola ovunque, ma rispetto al passato si nota un’evoluzione positiva. E poi, come dicevamo prima, oggi ci sono leggi che introducono un obbligo preciso, cioè garantire accessibilità inclusiva agli ambienti, soprattutto quelli costruiti. Ciò spinge molti enti locali a muoversi, magari anche per adeguarsi alle normative, ma comunque a farlo. Mi auguro che questa piccola goccia come FIABA posa diventare un mare di cultura per tutti, portando al centro le persone con un occhio attento ai nostri anziani, che sono la nostra storia e la nostra ricchezza prossima e futura”.
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