Il dott Nicola Normanno, dell’Istituto Pascale di Napoli, spiega il funzionamento di questo moderno approccio di analisi molecolare

Generalmente con il termine “biomarcatore” ci si riferisce a un qualunque segnale biologico correlabile a un processo fisiologico, a una condizione patologica o alla risposta a una terapia. È in questa accezione che vanno spiegati il senso e il significato della biopsia liquida, il cui principale impiego al momento è legato all’analisi delle mutazioni del gene EGFR (Epidermal Growth Factor Receptor) nei pazienti con carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC) in stadio avanzato.

Cos’è la biopsia liquida e a cosa serve

Nel settore dell’oncologia, le sfumature di significato e d’uso clinico di un biomarcatore si estendono sensibilmente e la connotazione conferita a una tecnica nuova rischia di essere fraintesa. È pertanto opportuno comprendere bene cosa sia una biopsia liquida, prima di inoltrarci nelle sue applicazioni cliniche. “Il termine biopsia liquida, per certi versi, è improprio perché fa pensare che sia un’alternativa sotto tutti gli aspetti alla biopsia tissutale. Non è sicuramente così”, precisa il dott. Nicola Normanno, Direttore della Struttura Complessa di Biologia Cellulare e Bioterapie dell’Istituto Nazionale Tumori – IRCCS ‘Fondazione Pascale’ di Napoli. “Questo termine, in realtà, si riferisce alla identificazione di biomarcatori nei fluidi biologici del paziente oncologico, al fine di ottenere informazioni diagnostiche e prognostiche o per predire la risposta terapeutica a ben determinati farmaci antitumorali”.

Contrariamente a quanto supposto, la biopsia liquida non si effettua unicamente sul sangue – che al momento rimane la matrice d’analisi più diffusamente impiegata – ma anche su altri fluidi quali le urine, il liquido cerebrospinale o i versamenti pleurici e peritoneali. Altrettanto vasto è l’elenco dei biomarcatori che possono essere in essa dosati. “In generale, quando parliamo di biopsia liquida ci riferiamo all’analisi del DNA tumorale circolante che è una frazione del DNA libero circolante estratto dal sangue periferico – prosegue Normanno – ma per biopsia liquida si intende la ricerca anche di proteine, di altri acidi nucleici (RNA, miRNA) o ancora di vescicole extra-cellulari, come gli esosomi che contengono a loro volta DNA, RNA e proteine”. Nella definizione di biopsia liquida sono compresi quindi vari materiali sui quali eseguire il dosaggio di un intervallo ancora più ampio di biomarcatori. È una tecnica non invasiva, può essere agevolmente ripetuta nel tempo ed è in grado di offrire un quadro piuttosto completo dell’eterogeneità sul piano molecolare di una malattia.

Tuttavia, da sola la biopsia liquida non può essere usata in chiave diagnostica. “Può trovare impiego per determinare i biomarcatori ma non per fare diagnosi di cancro, cosa per cui rimane indispensabile una biopsia tissutale”, chiarisce l’esperto napoletano. “Al momento, la biopsia liquida non può sostituirsi a quella tissutale perché i dati in nostro possesso indicano che il fatto di trovare una certa mutazione nel sangue non implica necessariamente che il paziente sia affetto da un tumore. Non possiamo tuttavia escludere che in futuro si possa anche arrivare ad una diagnosi di cancro da una biopsia liquida, magari combinando diversi marcatori”. Anche la limitata quantità di DNA tumorale circolante può essere un ostacolo da cui possono scaturire risultati falsi negativi. Questo è un fattore limitante che colloca la biopsia liquida in un contesto nel quale la sua utilità è legata alla verifica del livello di alcuni biomarcatori di estremo valore per l’impostazione e la scelta di una terapia.

In quale contesto è più efficace la biopsia liquida

Due sono i principali scenari che fanno da sfondo alla ricerca delle mutazioni di EGFR tramite la biopsia liquida nei pazienti colpiti da carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC), un tipo di tumore maligno che rappresenta fino al 90% di tutti i tumori polmonari maligni e vede nel fumo di sigaretta il principale fattore di rischio. Le Linee Guida raccomandano l’analisi delle mutazioni di EGFR su campioni bioptici tissutali in tutti i pazienti con NSCLC agli stadi IIIB-C e IV dove la chirurgia non è efficace e la prognosi molte volte è infausta. “Purtroppo, in circa un quarto dei pazienti con nuova diagnosi di carcinoma polmonare metastatico la quantità di tessuto per l’analisi molecolare, inclusa l’analisi di EGFR, non è sufficiente”, afferma Normanno. “In questo caso esiste già una diagnosi ma il tessuto non è sufficiente o il campione non è qualitativamente adeguato per l’analisi molecolare, perciò in questi casi si fa ricorso alla biopsia liquida per analisi delle mutazioni di EGFR”. Le alterazioni più ricercate sono le delezioni dell’esone 19 e la mutazione L858R dell’esone 21, la cui conoscenza può essere d’aiuto nella scelta della terapia, ma i clinici non escludono la possibilità di ampliare le indicazioni di ricerca con l’individuazione di nuove mutazioni nei carcinomi polmonari che offrano la possibilità di intervenire in maniera terapeutica con nuovi farmaci o con molecole registrate e già usate nella pratica clinica.

I pazienti con malattia metastatica rispondono bene al trattamento farmacologico con gli inibitori della tirosin-chinasi (TK) ma una consistente quota di pazienti sviluppa una resistenza agli inibitori di prima o seconda generazione. Osimertinib, una molecola messa a punto da AstraZeneca, era già stato approvato per i pazienti in progressione di malattia dopo un trattamento di prima linea con gli inibitori di TK ma, in seguito ad una convincente prova di efficacia terapeutica nel confronto con altri farmaci, la Commissione Europea ha concesso un’approvazione in prima linea come monoterapia per il trattamento di pazienti adulti affetti da carcinoma polmonare localmente avanzato o metastatico con mutazione di EGFR. “Questo è il secondo scenario in cui si usa la biopsia liquida”, precisa Normanno. “Se un paziente sviluppa una resistenza agli inibitori di TK di prima o seconda generazione allora la biopsia liquida viene usata per la valutazione della progressione di malattia attraverso la ricerca di una mutazione specifica di EGFR che è la T790M, quella che indica la resistenza e contro cui è attivo osimertinib”. La ricerca della mutazione T790M nei pazienti con NSCLC avanzato resistenti al trattamento con inibitori di TK non si eseguiva di routine ma l’avvento di osimertinib ha imposto una rivalutazione del peso di questa analisi, favorendo l’uso della biopsia liquida e consentendo così la somministrazione di questo farmaco nei casi che più possono beneficiarne.

Prospettive future

“Sia la biopsia tissutale che quella liquida possono dare informazioni complementari circa il rischio di progressione di malattia”, conclude Normanno. “Nel futuro la biopsia liquida sarà usata non tanto come surrogato o alternativa alla biopsia tissutale ma come una valida integrazione per decidere meglio quale sia la terapia da somministrare. Naturalmente, per rimanere nel solco dell’appropriatezza prescrittiva, sarà sempre a carico dell’oncologo raccomandare l’esecuzione di questo test. Il nostro Istituto ha avviato un’iniziativa internazionale per un controllo di qualità sull’esecuzione del test di biopsia liquida che ci consentirà di certificare un elenco di centri in grado di eseguire il test con elevati livelli di qualità. È un’analisi difficile e peculiare perché dal sangue si estraggono piccole quantità di DNA tumorale circolante e questo rende molto complessa l’esecuzione, che deve essere effettuata in centri specializzati dove si concentra una forte esperienza sul piano tecnico e una alta disponibilità di tecnologie”.

Nel frattempo, la ricerca si sta concentrando anche su altri protocolli di ricerca per questo innovativo test: quando, infatti, i pazienti rispondono al trattamento con i farmaci inibitori di EGFR si osserva una riduzione dei livelli di mutazione nel sangue e la biopsia liquida potrebbe confermare questo processo in maniera rapida ed efficace. Inoltre, nei pazienti operati dove sussista un residuo di malattia essa potrebbe rivelarsi capace di stabilire il rischio di recidiva. Si tratta di applicazioni sperimentali che richiederanno una validazione nel contesto di studi clinici controllati e randomizzati, ma che creano la base per un uso razionale di questo promettente test di laboratorio.

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