Terapie tumori della mammella BRCA-mutati

I risultati dello studio clinico PARTNER suscitano importanti riflessioni relative al momento migliore per combinare la chemioterapia al trattamento con PARP-inibitori

Con quasi 55mila nuovi casi ogni anno, il tumore della mammella è il più frequente in Italia nonché uno su cui si pone marcatamente l’accento in chiave preventiva, poiché per tutte le donne di età compresa tra i 50 e i 69 anni è disponibile un programma di screening che prevede l’esecuzione gratuita di una mammografia a cadenza biennale. Tra le cause che predispongono l’insorgenza di questo tipo di tumore - perlopiù sporadico - figurano fattori genetici che riguardano un modesto insieme di persone (5-7% delle pazienti): i più noti geni ad elevato rischio sono BRCA1 e BRCA2, anche associati a maggiori probabilità di sviluppare carcinoma ovarico. Secondo le stime circa il 3-5% dei tumori della mammella fa la sua comparsa in donne portatrici di anomalie in uno dei geni BRCA e ciò rende più raro - ma non meno pericoloso - questo sottogruppo di tumori.

Nelle donne con una mutazione in uno dei geni BRCA il rischio di sviluppare un cancro della mammella si aggira tra il 60 e l’80% e ciò mette in luce il valore delle analisi genetiche e della consulenza con un genetista esperto per la valutazione del rischio individuale. Se, da un lato, la chirurgia profilattica abbassa drasticamente le probabilità di sviluppo del tumore - il caso dell’attrice Angelina Jolie sottoposta a mastectomia preventiva ha contribuito a far parlare tutto il mondo di questo tipo di intervento - dall’altro occorre continuare a indagare nuove opportunità di trattamento per queste forme tumorali.

Gli schemi terapeutici del tumore della mammella sono estremamente complessi e prevedono il ricorso a strategie differenti in base allo stadio (neoplasia in fase iniziale o avanzata), alla sensibilità ai recettori ormonali o all’espressione di specifici recettori (su tutti HER2). Meno di due anni fa l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha approvato la rimborsabilità di olaparib, un farmaco capace di inibire l’azione delle proteine PARP-1, PARP-2 e PARP-3. Gli enzimi PARP sono indispensabili per riparare le rotture dei singoli filamenti di DNA: in una cellula neoplastica dove già sia presente un difetto nei percorsi di riparazione del DNA (le mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2 sono causa di ciò) il blocco di un altro meccanismo di riparazione come quello promosso dagli enzimi PARP conduce alla morte cellulare. Questo spiega il successo dei farmaci PARP-inibitori: nei modelli di malattia approntati è stato possibile vedere che, somministrato dopo il trattamento chemioterapico, olaparib ha determinato un rallentamento della progressione del tumore e un aumento della sopravvivenza globale in confronto alla sola chemioterapia. AIFA ha dunque approvato il farmaco per il trattamento adiuvante di pazienti adulte con cancro della mammella (sia allo stadio iniziale ad alto rischio che localmente avanzato o metastatico), HER2-negativo, e con mutazioni nella linea germinale BRCA1/2, precedentemente trattate.

Nelle scorse settimane, una pubblicazione sulla rinomata rivista Nature Communications ha riportato le conclusioni di uno studio di Fase II/III, denominato PARTNER, che aveva come obiettivo valutare se l’aggiunta di olaparib alla chemioterapia neoadiuvante (cioè prima dell’intervento chirurgico) aumentasse i tassi di risposta patologica completa (pCR), vale a dire l’assenza di malattia invasiva residua al momento della chirurgia. Per certi versi questo lavoro non ha raggiunto tutti gli obiettivi che si era posto, ma i risultati da esso emersi hanno indotto gli oncologi ad alcune importanti considerazioni sui programmi di trattamento di questi tumori.

In un arco di studio di 7 anni (2016-2023) sono state incluse 108 pazienti affette da cancro della mammella in stadio precoce legato a varianti patogenetiche nei geni BRCA1/2 provenienti da 23 centri del Regno Unito. Le partecipanti sono state suddivise in tre gruppi: un gruppo di controllo che ha ricevuto la chemioterapia standard (carboplatino + paclitaxel, seguita da antracicline); un gruppo sperimentale che ha ricevuto la medesima chemioterapia, ma con l’aggiunta di olaparib dal terzo al quattordicesimo giorno dopo ogni ciclo; e un terzo gruppo che ha assunto olaparib due giorni prima dell’inizio della chemioterapia. La scelta di questa metodologia d’indagine aveva trovato ragione negli esiti di alcuni studi preclinici da cui era emerso che un intervallo di 48 ore tra l’inibitore di PARP e il carboplatino permetteva di conservare l’efficacia d’azione abbassando i livelli di tossicità. Infatti l’interesse principale dei ricercatori era quello di studiare un modo per combinare le due forme di trattamento limitando il sovraccarico sul midollo osseo, perciò grande attenzione è stata rivolta alla sicurezza, tollerabilità e agli effetti collaterali della combinazione di olaparib e chemioterapia rispetto alla sola chemioterapia.

In termini di efficacia il calcolo della pCR è stato effettuato su 82 delle 84 pazienti considerate idonee al trattamento, rivelando che l’aggiunta di olaparib non ha migliorato in modo significativo la risposta patologica completa rispetto alla sola chemioterapia: il tasso di pCR è stato del 64,1% nel gruppo di olaparib e del 69,8% nel gruppo di controllo, una differenza statisticamente non significativa. Sembra la descrizione di un fallimento ma, nella valutazione della sopravvivenza libera da eventi (EFS) e della sopravvivenza globale (OS) sono venute a galla alcune incoerenze, o meglio delle sorprese che gli oncologi non si aspettavano: le pazienti che avevano ricevuto olaparib in aggiunta alla chemioterapia vivevano più a lungo e avevano meno recidive. A tre anni dall’inizio del trattamento, il tasso di sopravvivenza senza recidiva o decesso era del 96,4% nel gruppo sperimentale, contro l’80,1% nel gruppo di controllo. E ancora: tutte le pazienti nel gruppo olaparib erano vive, mentre nel gruppo di controllo si erano verificati sei decessi. Il dato appare ancora più eclatante se confrontato con l’ultimo sottogruppo - quello che aveva assunto olaparib 48 ore prima della chemioterapia - in cui la sopravvivenza è risultata inferiore (66,7%) rispetto a entrambi gli altri gruppi.

A quali conclusioni sono dunque giunti i ricercatori? Che non basta aggiungere olaparib ma che bisogna farlo al momento giusto. La combinazione di chemioterapia e olaparib nel braccio di studio è risultata sicura, ben tollerata e in grado di migliorare EFS e OS nelle pazienti con tumori legati a varianti BRCA1/2. Infatti, quando l’inibitore di PARP è stato somministrato dopo (almeno 48 ore) la chemioterapia ha funzionato meglio. Quando, invece, veniva dato prima (almeno 48 ore) sembrava quasi “preparare” le cellule a difendersi dagli effetti tossici del trattamento successivo. Queste conclusioni aprono un filone di riflessione fondamentale nella ricerca oncologica: la sequenza temporale dei farmaci può essere decisiva tanto quanto i farmaci stessi.

Inoltre, sarà sempre più necessario interrogarsi sul significato della risposta patologica completa. Solitamente, chi ottiene una pCR ha anche le migliori probabilità di sopravvivere ma nello studio PARTNER è mancata l’associazione tra questi due dati, e anche tra le pazienti che non avevano ottenuto una pCR è stata raggiunta una buona sopravvivenza a tre anni, suggerendo che, perlomeno nei tumori BRCA-mutati, la pCR non sia sempre un indicatore affidabile della sopravvivenza a lungo termine. Infine, sul versante degli effetti collaterali, il trattamento combinato ha portato a un numero leggermente maggiore di eventi avversi gravi (cali nei globuli bianchi e piastrine), ma senza accrescere il numero di interruzioni del trattamento rispetto alla sola chemioterapia. Tuttavia, la qualità della vita percepita dalle pazienti è rimasta simile in entrambi i gruppi.

Col suo fallimento, lo studio PARTNER contribuisce comunque a cambiare il modo di guardare ai trattamenti neoadiuvanti nel cancro della mammella BRCA-mutato giacché, pur non migliorando la risposta immediata alla terapia, l’aggiunta 'intelligente' di olaparib ha allungato la sopravvivenza, il che è l’obiettivo finale di qualunque trattamento oncologico. É pur vero che le pazienti con mutazioni nei geni BRCA rappresentano una categoria a parte di cancro della mammella, con risposte biologiche e terapeutiche peculiari per cui sono necessarie strategie altamente personalizzate. Ma in considerazione dei nuovi trattamenti oncologici che stanno entrando in commercio, il ragionamento sulla miglior tempistica di combinazione dei farmaci diventa un obiettivo primario della ricerca scientifica, non solamente nel caso del tumore della mammella.

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