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La testimonianza di Luca Montemurro, vicepresidente dell’associazione Huntington Onlus

Alcune rare patologie ereditarie, come la malattia di Huntington, scuotono a tal punto l’esistenza delle persone che le affrontano - non solo di chi ne è affetto - da provocare profondi cambiamenti nel modo di pensare e agire. Di certo, questo è quanto accaduto a Luca Montemurro, ingegnere aerospaziale e vicepresidente dell’associazione italiana Huntington Onlus, un ragazzo di 35 anni che si è scoperto a dover fare i conti con una patologia di cui poche persone hanno cognizione, e ancora meno intuiscono l’autentico significato dei sintomi fisici, cognitivi e comportamentali che la contraddistinguono.

L’idea del Libro bianco “Huntington. Da affare di famiglia a questione pubblica” è nata proprio per sensibilizzare la popolazione, portandola a contatto con questo raro disturbo del sistema nervoso in tutte le sue sfaccettature. “Come tante altre persone, per molto tempo non sono stato a conoscenza di che cosa rappresentasse la malattia di Huntington e di quale implicazioni ereditarie avesse”, spiega Luca. “Poi, casualmente, un’estate di qualche anno fa, mi trovavo in vacanza al mare e mentre sfogliavo una rivista di salute e tecnologia, mi cadde l’occhio su un articolo di Elena Cattaneo. Descriveva la malattia di Huntington in termini evoluzionistici, spiegando che una delle sue principali peculiarità era quella di rappresentare una palestra per l’evoluzione del sistema nervoso umano. La malattia di Huntington potrebbe dunque essere al centro di complessi meccanismi evolutivi che riguardano il gene a carico del quale si producono le mutazioni alla base della patologia e, poiché questo passaggio non si è ancora compiuto, ecco che proprio i ‘difetti di percorso’ si presentano come i tratti tipici che scatenano la Huntington”.

Luca rimase incuriosito da quella teoria, attraverso cui entrò in contatto con una condizione che, circa un anno più tardi, avrebbe scoperto coinvolgere anche la sua famiglia. “Fu di nuovo un fatto casuale”, prosegue Luca. “Quando mi ritrovai per le mani la documentazione clinica di mia madre riconobbi il nome della malattia presentata nell’articolo della prof.ssa Cattaneo e compresi che era qualcosa che ci riguardava in maniera diretta: in primo luogo per le palesi necessità di supporto a mia madre e, secondariamente, per la possibilità di sapere se anche io avessi ereditato la mutazione che innesca la patologia”.

Luca aveva poco più di 30 anni quando si è trovato a dover scegliere se sottoporsi o meno al test genetico per la malattia di Huntington ma la sua indole pragmatica e l’attitudine a programmare l’hanno indotto senza scrupoli a eseguire l’esame. “È un ragionamento soggettivo, non posso dire in termini assoluti che fosse la scelta giusta o sbagliata ma, per il mio approccio alla vita, dovevo sapere su quali energie avrei potuto contare negli anni a venire, e quali sfide avrei dovuto affrontare nel caso fossi risultato positivo”, spiega. “Sentivo di aver una responsabilità nei confronti della mia famiglia e della mia fidanzata: volevo che anche lei avesse la libertà di compiere le sue scelte”. Se è vero che la consapevolezza rende liberi, a Luca fu chiaro che solo passando attraverso la dura realtà del test avrebbe potuto affrontare nel modo migliore il suo domani. “Una volta deciso che mi sarei sottoposto al test pre-sintomatico ho iniziato un percorso di circa 6 mesi, costellato di incontri mensili di avvicinamento alla malattia di Huntington”, racconta. “Si tratta di un protocollo di accompagnamento dell’individuo valido a livello internazionale e che dedica grande attenzione soprattutto all’impatto psicologico di un eventuale risultato positivo. Nel compiere questo percorso mi sono sentito fortunato per il fatto di non essere stato lasciato da solo ma di esser divenuto parte di un’istituzione che prende per mano le persone e le supporta in una fase così delicata della vita”.

Luca è risultato negativo al test, per cui la malattia di Huntington in lui non si manifesterà mai ma, con voce rotta dall’emozione, ricorda di essersi chiesto per quali imperscrutabili motivi a lui non sia toccata la sorte della madre, e di essersi sentito chiamato a rendersi disponibile nei confronti della sua famiglia: infatti, coloro che si prendono cura di una persona affetta da Huntington lo fanno in tutti gli ambiti della quotidianità, dal semplice gesto di indossare una maglia, sino al sostegno in tutte quelle piccoli commissioni di cui c’è bisogno giornalmente. 

La malattia di Huntington erode le facoltà cognitive e intellettive di una persona e, pertanto, deve esser presa in carico nell’ottica di un percorso multidisciplinare”, precisa Luca che è presto venuto in contatto con il mondo dell’associazionismo, all’interno del quale i pazienti e i loro famigliari trovano spazi condivisi nei quali sentirsi meno isolati nel combattere la malattia. “Pur con qualche difficoltà, riesco a conciliare la vita lavorativa con le ore di supporto diretto a mia madre, accompagnandola alle sedute terapeutiche e restandole accanto nel corso delle visite mediche di controllo”. Purtroppo, la diffusione del virus SARS-CoV-2 ha reso più ostico, per molti pazienti, il percorso terapeutico, generando lacune difficili da colmare proprio nel momento in cui il fattore cruciale è la continuità assistenziale. “I primi mesi della pandemia sono stati particolarmente duri poiché è venuta meno la disponibilità di strutture e personale sanitario in grado di garantire una certa continuità nelle visite di controllo e nell’erogazione delle terapie”, specifica Luca. “Si è creata una distanza tra la struttura sanitaria e i pazienti come mia mamma, la quale faceva soprattutto sedute di fisioterapia e terapia occupazionale”.

Tuttavia, Luca non si è dato per vinto e ha sfruttato i vantaggi della tecnologia, cercando su internet tutto quello che poteva essergli utile per incrementare le competenze con cui portare alla madre la giusta assistenza e trovando così dei filmati sul canale YouTube della European Huntington Association che gli sono stati di grande aiuto. Ma per procedere davvero nella direzione dei pazienti con Huntington e delle loro famiglie è necessario spronare le istituzioni a ridurre l’impatto dei protocolli burocratici, garantendo servizi come la disponibilità di permessi lavorativi o l’assistenza domiciliare. “Quando abbiamo potuto attivare l’assistenza a domicilio è stato possibile riprendere con il programma di fisioterapia; per tale ragione, è fondamentale che il mondo delle associazioni, coloro che operano nel settore della divulgazione e le stesse strutture sanitarie cooperino per potenziare sempre più i servizi domiciliari al paziente”, conclude Luca, il quale, con il suo esempio, sta dimostrando che se la Huntington è una malattia che colpisce la famiglia, è compito dell’intera società contribuire a rendere migliore la quotidiana esistenza di pazienti e familiari.

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