La scoperta proviene da una ricerca coordinata professor Antonio Oliva, del Policlinico Universitario "Gemelli" di Roma
Roma – Grazie a uno studio condotto presso la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS di Roma, si è scoperto che nel 75% dei casi di sindrome di Brugada, una rara malattia che colpisce il cuore, alla base delle aritmie cardiache tipiche della patologia c’è un’anomalia del muscolo cardiaco stesso e uno stato infiammatorio anomalo. La scoperta permetterà di predire quali dei pazienti con la sindrome sono a rischio di aritmie e di morte cardiaca improvvisa, soprattutto in soggetti giovani altrimenti considerati completamente sani.
La ricerca è stata pubblicata sulla più importante rivista cardiologica mondiale, il Journal of the American College of Cardiology, e coordinata dal professor Antonio Oliva, dell’Istituto di Sanità Pubblica dell’Università Cattolica, UOC Medicina Legale, Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS. Lo studio è stato supportato da un finanziamento della Fondazione Telethon assegnato a Maurizio Pieroni, del Dipartimento Cardiovascolare e Neurologico dell'Ospedale San Donato di Arezzo, e al professor Oliva, in collaborazione con Ramon Brugada, dell’Università di Girona in Spagna, che ha scoperto la sindrome. “Con questo studio - spiega il professor Oliva - si è fatta luce sui meccanismi biologici che determinano il rischio di aritmie fatali nei pazienti affetti da sindrome di Brugada”.
La sindrome di Brugada è una rara patologia del cuore su base genetica, ad ereditarietà autosomica dominante, ed è legata ad una disfunzione del gene SCN5A, localizzato sul cromosoma 3. Questo gene regola il funzionamento dei canali ionici, proteine con funzione di 'porte' situate sulla superficie cellulare, attraverso cui gli ioni (sodio, potassio, magnesio e calcio) escono ed entrano dalla cellula. La prevalenza stimata della sindrome di Brugada nel mondo è di 5 casi ogni 10.000 individui. Viene diagnosticata generalmente in età adulta, a volte durante l’adolescenza, mentre in età infantile può spiegare alcuni casi di sindrome della morte in culla. Tra i due sessi, è quello maschile il più colpito, con un’incidenza da 8 a 10 volte maggiore di quella del sesso femminile. I decessi si verificano fra i 30 e i 40 anni. Oltre al sesso, anche la familiarità è un fattore di rischio non modificabile. Tra tutti i soggetti con sindrome di Brugada, fortunatamente, solo la minoranza va incontro ad aritmie fatali. La grande sfida per i cardiologi è proprio individuare, tra i soggetti asintomatici, ma aventi un elettrocardiogramma diagnostico, quelli maggiormente a rischio di aritmie gravi, e che necessitano quindi di essere protetti con l’impianto di un defibrillatore.
Sin dalle prime descrizioni agli inizi degli anni ’90 la sindrome di Brugada, è stata considerata un disturbo esclusivamente dell’impianto elettrico del cuore, in apparente assenza di alterazioni del cuore e del muscolo cardiaco. “Con questo lavoro abbiamo ulteriormente dimostrato che importanti alterazioni del muscolo cardiaco sono presenti nella maggior parte dei pazienti, e sono alla base delle alterazioni elettriche e delle aritmie fatali”, spiega il professor Antonio Oliva. Lo studio si è basato sul prelievo di campioni di muscolo cardiaco e sulla mappatura elettrica del cuore di pazienti che sono stati preliminarmente sottoposti ad un esame elettrocardiografico diagnostico per sindrome di Brugada, evidenziando delle aree con anomalie sul fronte del funzionamento elettrico. E’ stato poi eseguito lo screening genetico dei pazienti. In particolare l’esame al microscopio dei campioni biologici prelevati ha evidenziato che, in oltre il 75% dei casi, è presente un’infiammazione del muscolo cardiaco, e che tale infiammazione è maggiormente presente tanto più sono estese le aree cardiache anomale.
Questo studio accende una nuova luce su come capire quali pazienti sono a rischio di aritmie fatali. La propensione ad avere aritmie gravi potrebbe aumentare con l’aumentare dell’estensione dell’area anomala e in presenza di infiammazione del muscolo cardiaco, ponendo quindi le basi per un nuovo modo di definire il rischio aritmico di questi pazienti. “Questa scoperta, oltre ad importanti significati prognostici, avrà probabilmente importanti ripercussioni anche terapeutiche”, conclude il professor Oliva. “Negli Stati Uniti è stata già sperimentata l’efficacia della terapia anti-infiammatoria con cortisonici, in aggiunta alle terapie convenzionali, nel debellare aritmie gravi in casi di soggetti affetti dalla sindrome”.
“La sindrome di Brugada è caratterizzata da un’alterazione dell’elettrocardiogramma che porta il paziente all’attenzione del cardiologo”, commenta il professor Filippo Crea, direttore del Dipartimento di Scienze cardiovascolari e toraciche del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS – Università Cattolica. “È stata considerata, finora, una malattia genetica che, provocando un’alterazione funzionale delle cellule cardiache, aumenta il rischio di morte improvvisa. Questo studio mette la sindrome di Brugada in una luce completamente nuova, dimostrando che non solo alterazioni genetiche, ma anche un’infiammazione del cuore, può causare la patologia. Apre pertanto nuove strade per l’identificazione dei pazienti con sindrome di Brugada ad alto rischio di morte improvvisa, che necessitano dell’impianto di un defibrillatore”.
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