L’intervista alla Prof.ssa Maddalena Casale, dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Luigi Vanvitelli di Napoli
La talassemia nell’ultimo decennio è diventata a tutti gli effetti malattia a prognosi aperta: una malattia che prospetta ai pazienti che ne soffrono una aspettativa di vita quasi del tutto sovrapponibile a quella di qualunque altra persona del tutto sana. Questo è avvenuto grazie ad una maggiore disponibilità di sacche di sangue - necessarie per la terapia trasfusionale, ancora oggi la vera terapia salvavita per questi pazienti - e alle nuove terapie che la ricerca scientifica ha messo a disposizione. Ma in che modo le persone affette da questa rara forma di anemia si sono adattate a tali cambiamenti profondi e repentini? Per approfondire questo ed altri aspetti, abbiamo incontrato Maddalena Casale, ricercatrice presso il centro di Ematologia e Oncologia Pediatrica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Luigi Vanvitelli di Napoli, afferente alla Rete di Riferimento Europea per le malattie ematologiche rare (ERN-EuroBloodNet).
Professoressa Casale, partiamo dall’attività che svolgete nel centro campano per la presa in carico delle persone con emoglobinopatie. Quanti pazienti seguite e che procedure cliniche adottate?
Nel centro per il quale lavoro, diretto dal Prof. Silverio Perrotta, prendiamo in carico le patologie oncologiche e le patologie ematologiche non oncologiche, dalle piastrinopenie, alle patologie dei globuli bianchi, a tutte le anemie congenite. I pazienti vengono gestiti in ambulatorio, regime di Day Hospital o di ricovero ordinario, in base alla tipologia di patologia e alla situazione clinica del momento. Le emoglobinopatie coprono una parte rilevante, direi predominante, delle attività del nostro centro con un team dedicato prettamente alla loro gestione. Questo team è supportato da una rete di specialisti esperti, dall’endocrinologo, al cardiologo, all’ortopedico fisiatra, al radiologo, al neuropsichiatra ed altri specialisti. Seguiamo tutte le forme di emoglobinopatie, dalle sindromi talassemiche, alle drepanocitosi, alle forme da emoglobine anomale instabili ad alta e bassa affinità per l’ossigeno. L’età media dei pazienti - continua Casale - varia in base al tipo di emoglobinopatia, attorno ai 30 anni o più nelle talassemie trasfusione-dipendenti, ai 15 anni circa delle drepanocitosi. Questo dato riflette l’andamento epidemiologico di queste patologie che si può ritrovare anche a livello nazionale. All’interno del centro è attivo un laboratorio di genetica e biologia molecolare con una particolare esperienza nella diagnostica delle emoglobinopatie, con cui il team medico lavora a stretto contatto, che ci consente di diagnosticare e scoprire nuove varianti emoglobiniche mai descritte prima, come l’Emoglobina Vanvitelli, che abbiamo battezzato così proprio perché individuata e descritta per la prima volta in una bambina arrivata al nostro centro dopo una lunga odissea diagnostica.
Il vostro centro partecipa o ha partecipato di recente a studi pilota o trial clinici per le emoglobinopatie?
Sì, il nostro centro ha partecipato allo studio pilota su un chelante orale del ferro, che è stato uno dei primi studi a cui ho partecipato personalmente quando ancora ero una giovane laureanda e poi specializzanda in pediatria. Da allora – prosegue Casale – abbiamo partecipato alla maggioranza degli studi clinici sulle emoglobinopatie attivi in Italia, per esempio gli studi per la sperimentazione di nuove molecole per migliorare la gestione del sovraccarico di ferro, ridurre l’anemia e la richiesta trasfusionale, non solo per le talassemie trasfusione-dipendenti ma anche per quelle non trasfusione-dipendenti, finora sempre oggetto di attenzione minore. Sono attivi anche diversi studi per la sperimentazione di nuove molecole per ridurre le crisi dolorose vaso-occlusive gravi o l’emolisi nell’anemia a cellule falciformi, che devo dire è la vera cenerentola tra le malattie ematologiche, nonostante l’enorme carico di gestione della malattia e delle sue complicanze. Noi abbiamo partecipato anche alla sperimentazione del nuovo farmaco di recente approvazione nell’anemia falciforme e abbiamo ottenuto un accesso anticipato al farmaco per alcuni dei nostri pazienti, chiaramente quelli che ne avevano maggiormente bisogno, prima che esso diventi effettivamente disponibile sul territorio nazionale. Abbiamo anche partecipato alla sperimentazione della terapia genica sia per la talassemia che per l’anemia falciforme. Oggi possiamo dire che viviamo un momento molto interessante e pieno di aspettative per la sperimentazione clinica nelle emoglobinopatie.
Considerando l’ampia gamma di farmaci e terapie che ci ha brevemente illustrato - alla cui sperimentazione il vostro centro ha anche attivamente partecipato – è evidente che per una patologia cronica come la talassemia sia necessario, nell’arco della vita del paziente, affrontare diversi cambiamenti di cura. Come rispondono i pazienti a questi possibili cambi di terapia?
Partirei con una riflessione sulle terapie cosiddette convenzionali, come trasfusioni e ferro chelanti che devono necessariamente entrare a far parte della quotidianità, delle abitudini e dello stile di vita dei pazienti. Anzi è quello che auspichiamo, che le terapie si integrino, si adattino alla routine di vita del paziente e della famiglia. Quando realmente la terapia diventa una consuetudine, un’abitudine regolare, tuttavia, può essere difficile accettare il cambiamento. Cambiamento che invece può risultare necessario. Dover cambiare un farmaco ferrochelante – ad esempio la modalità di assunzione - può richiedere un riadattamento. Quando propongo di inserire una nuova terapia, come una terapia cardiologica oppure una supplementazione ormonale, spesso noto che questa mia richiesta di cambiamento genera paura, insofferenza e anche rabbia da parte dei pazienti. Il punto di partenza è che le terapie servono a farci stare meglio, a risolvere dei problemi che sono insorti ed il cambiamento in questi casi ha sempre come obiettivo finale il miglioramento. Quello che può essere utile è parlare insieme delle abitudini o delle necessità individuali o della famiglia e adattare il cambiamento della terapia all’organizzazione di vita. Altro discorso è per quei pazienti che non hanno ancora trovato una routine fissa per le terapie. Se le terapie non sono associate ad un momento più o meno fisso e regolare nella propria giornata, si rischia di dimenticarle, presi dai propri impegni. In questi casi, il cambiamento consiste nel trovare il momento fisso della propria giornata più adatto a prendere le terapie, così che la terapia stessa diventi un’abitudine e non venga percepita come un peso o qualcosa di cui doversi ricordare faticosamente. Discutere di questo aiuta sicuramente ad affrontare il cambiamento
Fin qui le difficoltà legate all’accettazione della necessità del cambiamento delle terapie convenzionali. Come si confrontano invece i pazienti con l’idea di guarigione e quindi con quelle terapie che hanno questo obiettivo?
In questo caso entra in gioco la visione della vita che ognuno individualmente ha. Ci sono pazienti che vivono la propria malattia serenamente riuscendo ad integrare le terapie con il proprio stile di vita. Questi pazienti, nonostante l’evidente impegno che comporta seguire la terapia, ne comprendono i benefici e quindi aderiscono al piano terapeutico con serenità. Per loro va bene così, non percepiscono altre esigenze. Dall’altro lato, c’è chi - nonostante abbia consapevolezza di avere una vita piena, realizzata, fatta di lavoro, di figli, di famiglia, di soddisfazioni personali - sente di volere altro, di voler mirare alla guarigione, di voler cambiare la propria vita. Non si sentono liberi o pienamente realizzati a causa delle terapie e della malattia. Chiaramente, in questi casi, le recenti approvazioni di nuove terapie curative riaccendono la speranza e l’attesa di un nuovo cambiamento.
Infine alcuni pazienti sembrano non pensarci affatto, ma potrebbe essere sia perché non è abbastanza informato, sia perché forse non la percepisce come una possibilità realistica per sé stesso. La resistenza legata all’eventuale disinteresse, disinformazione oppure rassegnazione, può essere affrontata con il dialogo, con l’informazione, con la discussione aperta. Il dialogo medico-paziente, al di là della propensione o meno al cambio di terapia, rimane un elemento imprescindibile per creare una alleanza che abbia come obiettivo l’accettazione della patologia e l’adesione alla migliore terapia disponibile possibile.
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