Convegno sull'amiloidosi

Cardiologi e neurologi si sono incontrati a Bologna con l'obiettivo di promuovere una diagnosi sempre più precoce

Bologna – Oggi, 26 ottobre, si celebra la prima Giornata Mondiale dell'Amiloidosi, un nome che comprende un gruppo di circa trenta patologie rare, alcune delle quali ereditarie, che interessano diversi organi e funzioni. L'iniziativa, promossa dalla federazione internazionale dei pazienti Amyloidosis Alliance, ha l'obiettivo di aumentare la consapevolezza dei medici e dell'opinione pubblica riguardo a queste malattie, caratterizzate dall'accumulo patologico, in sede extracellulare, di un materiale proteico insolubile chiamato sostanza amiloide. Malattie gravi e complesse, ma oggi curabili.

Anche in Italia gli esperti hanno avuto l'occasione di confrontarsi sulle ultime novità diagnostiche e terapeutiche, nel corso di un convegno organizzato sabato scorso a Bologna da tre medici del Policlinico Sant’Orsola-Malpighi: i cardiologi Christian Gagliardi e Simone Longhi e il neurologo Pietro Guaraldi. L'aggiornamento ha riguardato una delle forme più diffuse della malattia: l’amiloidosi ereditaria da accumulo di transtiretina. L'incontro ha visto coinvolti tutti gli specialisti della Regione Emilia-Romagna che lavorano nel campo della patologia, ai quali si sono aggiunti esperti di fama nazionale e internazionale, come la dr.ssa Laura Obici di Pavia, il prof. Giuseppe Vita e la prof.ssa Anna Mazzeo di Messina, il dr. Francesco Cappelli di Firenze e il dr. Marco Merlo di Trieste.

Nel corso del convegno sono state analizzate tutte le novità diagnostiche a disposizione dello specialista, accompagnate da casi clinici che sono stati spunto per la discussione successiva. Ogni relazione ha fornito importanti aggiornamenti in ambito cardiologico e neurologico, finalizzati al raggiungimento della diagnosi per poter precocemente intraprendere programmi terapeutici specifici”, ha spiegato il dr. Simone Longhi.

“In ambito cardiologico, l’attenzione è stata focalizzata sulle potenzialità dell’imaging: dall’ecocardiogramma con le tecniche di spackle tracking, all’utilità del T1 e T2 mapping e del volume extracellulare in risonanza magnetica, al ruolo emergente della tomografia a emissione di positroni (PET). Per avere maggiore accessibilità a queste metodiche (non sempre facilmente disponibili), durante la discussione sono stati stabiliti dei criteri comuni per accedere al servizio, al fine di garantire ad ogni paziente pari opportunità di utilizzo. In ambito neurologico, invece, le maggiori novità hanno riguardato lo studio della risposta simpatico-cutanea (SSR), l’utilizzo del dispositivo Sudoscan e lo studio del sistema neurovegetativo”, prosegue Longhi. “Anche in questo campo, per una diagnosi precoce di malattia non sono sufficienti solo gli esami strumentali e le moderne tecniche ora disponibili nei laboratori, ma è essenziale un’anamnesi accurata e un’attenta valutazione neurologica”.

L'amiloidosi può colpire diversi organi, fra cui il cuore, il sistema nervoso autonomo e sensitivo-motorio, il fegato, i reni e gli occhi. Quando la sostanza amiloide si deposita prevalentemente nel cuore, la condizione viene chiamata amiloidosi cardiaca. “Il sospetto di amiloidosi cardiaca viene in genere posto dal cardiologo in presenza di sintomi o segni di scompenso cardiaco associati a una 'discrepanza' fra ipertrofia ventricolare sinistra elettrocardiografica ed ecocardiografica. Una volta sospettata questa patologia, è necessario ricorrere a metodiche di imaging avanzato e di laboratorio al fine di ottenere una diagnosi eziologica che, attualmente, non richiede necessariamente un riscontro invasivo tissutale”, sottolinea il dr. Christian Gagliardi.

L’amiloidosi rappresenta il prototipo delle patologie sistemiche, in cui un approccio multidisciplinare appare oggi imprescindibile. L’interessamento cardiaco rappresenta, infatti, solo una delle sfaccettature di questa complessa malattia, e il coinvolgimento di altri organi rende la sua diagnosi particolarmente impegnativa, essendo il quadro clinico all’esordio molto variabile. La diagnosi di amiloidosi, infatti, viene spesso sospettata attraverso percorsi diagnostici diversi oltre quello cardiologico, come per esempio ematologico, nefrologico, neurologico, ortopedico-oncologico, internistico e oculistico. Questa eterogeneità può far tardare la diagnosi anche di mesi o anni e, con essa, l’inizio di una terapia specifica, che varia ampiamente fra le diverse forme, passando dalla chemioterapia nelle forme AL agli stabilizzatori della proteina o agli inibitori della sintesi della transtiretina nelle forme ereditarie e wild-type. In questo contesto, è quindi fondamentale l’interazione fra i vari specialisti coinvolti”, conclude il cardiologo.

Un altro specialista che gioca un ruolo chiave nella gestione dei pazienti con amiloidosi da transtiretina, a partire dalla formulazione del sospetto diagnostico fino al trattamento, è il neurologo. “Il sistema nervoso periferico può essere colpito sia nella sua componente motoria e sensitiva, quella cioè che regola la forza muscolare e la sensibilità, sia nella sua componente vegetativa, ossia quella che regola tutte le funzioni involontarie: il controllo della pressione arteriosa, della sudorazione, delle funzioni gastro-intestinali e sessuali”, spiega il dr. Pietro Guaraldi.

Gli strumenti a disposizione del neurologo sono diversi: in primis un’accurata anamnesi, rivolta non solo ai sintomi di una possibile polineuropatia (bruciori o formicolii alle mani e piedi, perdita della sensibilità termica, dolore, debolezza muscolare) ma anche volta a indagare la familiarità e altre condizioni che spesso si riscontrano in questa patologia, come sindrome del tunnel carpale bilaterale, stenosi del canale midollare, storia di cardiopatia ipertrofica, alterazioni del ritmo cardiaco o dimagrimento”, prosegue Guaraldi. “Durante l’anamnesi e la visita è importante indagare anche la presenza di sintomi e segni di disfunzioni neuro-vegetative: sintomi da ipotensione ortostatica (calo dei valori pressori che si manifesta tutte le volte che il soggetto passa dalla posizione sdraiata o seduta a quella in piedi, o durante la stazione eretta), storia di sincopi, deficit erettile, alterazioni della sudorazione e dell’alvo”.

L’amiloidosi è quindi una malattia complessa, ma oggi sempre più conosciuta, anche grazie a diverse campagne informative promosse negli ultimi anni. Per Andrea Vaccari, presidente di fAMY (Associazione Italiana Amiloidosi Familiare), sia l'istituzione della Giornata Mondiale, sia il congresso organizzato a Bologna sono delle iniziative lodevoli. “L'informazione è vita, e non è solo un modo di dire”, ha commentato. “L'informazione, diretta sia ai medici che ai pazienti, è fondamentale per sconfiggere l'amiloidosi. Io ho vissuto personalmente la malattia, sono un paziente da ormai 13 anni e non voglio più sentire, negli ospedali, che un medico non l'ha mai sentita nominare, che non sa come trattarla, che non sa se esistono dei farmaci. L'informazione crea il dubbio, il dubbio crea la diagnosi precoce per il paziente e tutto questo genera vita, perché solo individuando il prima possibile questa condizione è possibile accedere tempestivamente alle terapie. Scoprire la malattia nelle sue fasi finali, invece, certamente non aiuta”.

Per i pazienti, le prospettive sono cambiate radicalmente e in un tempo brevissimo”, prosegue Vaccari. “Quando ho scoperto di avere l'amiloidosi, questa malattia era quasi sconosciuta e non esistevano terapie, mentre oggi, per fortuna, c'è più informazione e soprattutto ci sono dei farmaci molto efficaci che per noi rappresentano davvero una speranza. Tuttavia, per i pazienti affetti da amiloidosi c'è ancora tanto da fare, come c'è tanto da fare nella sanità italiana: la diagnosi e la terapia sono fondamentali, ma non bisogna dimenticare altri aspetti. Ad esempio, molti nostri associati sono costretti a fare lunghi viaggi per assumere la terapia in ospedale o per le visite di controllo presso il Centro di riferimento, e spesso vi rinunciano a causa delle loro condizioni fisiche”, conclude il presidente di fAMY. “La presa in carico da parte dell'ente ospedaliero, inoltre, non è omogenea in tutte le Regioni italiane e non sempre garantisce la presenza di un team multidisciplinare, che è invece indispensabile per la gestione della malattia”.

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