Solide competenze di genetica, tecnologie di ultima generazione e molto lavoro di squadra: le tre carte vincenti per un successo diagnostico made in USA
Jordan era una bambina apparentemente in salute e vivace ma sempre troppo piccola per la sua età. I genitori le davano regolarmente da mangiare, scegliendo alimenti sani, sostanziosi ed energetici, ma la bambina non cresceva di peso. Preoccupati la portarono dalla pediatra che, nel corso del tempo, la sottopose a visite regolari richiedendo l’esecuzione di alcuni esami, ma senza venire a capo del motivo per cui non riuscisse a prendere peso e rientrare negli intervalli di normalità stabiliti. La scoperta del motivo per cui Jordan non cresceva è stato il primo successo del team di medici e biologi della Undiagnosed Rare Disease Clinic (URDC) dell’Università dell’Indiana (USA), coordinato dalla dottoressa Erin Conboy e dal dottor Francesco Vetrini. Una vera e propria squadra di “investigatori del DNA”.
I genitori di Jordan avevano notato le difficoltà della figlia a nutrirsi e, di conseguenza, erano in ansia per il fatto che non rispettava i parametri di crescita in altezza e peso fissati per la sua fascia di età: temevano che la responsabilità fosse loro, pensavano di sbagliare le modalità con cui la alimentavano e si erano fatti carico di colpe che non avevano. E che, di certo, non aveva Jordan. Dopo due anni di tensione e frustrazione il caso è finito sulla scrivania di Conboy e Vetrini che hanno convocato i genitori e sottoposto loro e la bambina ad approfondite indagini genetiche, finendo col trovare nel DNA di Jordan una mutazione del gene del fattore di crescita insulino-simile (IGF) che è causa del raro disturbo di crescita di cui soffre la bambina. Ciò ha permesso di intervenire - per quanto possibile - sulla dieta di Jordan e, al contempo, ha messo i suoi genitori nelle condizioni di capire quale fosse la vera natura dei problemi della figlia. Da allora gli investigatori del DNA hanno iniziato a risolvere casi via via più complessi, come quello del bambino affetto da acromatopsia, o quello di Ali, un uomo di 32 anni incapace di camminare fin dalla giovinezza a causa di un’inspiegabile patologia neuromuscolare.
Appare ovvio che la diagnosi di una malattia così rara - a volte giunta dopo anni di ricerca, consulti con vari medici e specialisti e infinite peregrinazioni da un ospedale all’altro - possa non trovare immediatamente corrispondenza in un trattamento efficace; certe condizioni sono molto più che rare, riguardano poche decine di individui in tutto il mondo e magari non hanno nemmeno un nome specifico ma sono definite solo da un elenco di sintomi. Tuttavia, conoscere la mutazione genetica che ne provoca l’insorgenza, capire a che livello del DNA si è formato il “danno”, fornisce una direzione da seguire: in primo luogo orienta la terapia, permettendo di utilizzare farmaci o approcci il più possibile mirati al problema, e in secondo luogo stabilisce un orizzonte futuro perché ai genitori e agli eventuali fratelli o sorelle del probando viene fornita una consulenza genetica che aiuta a stabilire il rischio di insorgenza in famiglia e a programmare le scelte riproduttive. Infine, è il primo passo per entrare in contatto con altre persone in una situazione similare.
Ali e la sua famiglia si erano già rivolti a molte altre strutture nel loro paese d’origine per venire a capo del problema - che affligge anche la sorella dell’uomo - ma senza trovare risposta. La loro odissea diagnostica si era protratta per quasi trent’anni ed è stato solo per caso che si sono imbattuti nei ricercatori dell’URDC. Infatti, il viaggio della famiglia di Ali negli Stati Uniti era stato motivato dalla necessità di eseguire un trapianto di rene al padre di Ali. Ma quando un medico dell’International Patient Care Services dell’Università dell’Indiana ha notato i problemi di mobilità del ragazzo ed è venuto a conoscenza dell’infruttuosa ricerca di risposte della famiglia li ha messi in contatto con Laurie Gutmann, a capo del Dipartimento di Neurologia e co-direttrice dell’Istituto di Neuroscienze della Indiana University School of Medicine, la quale ha richiesto l’aiuto degli esperti dell’URDC. Al termine di un lungo e dettagliato iter diagnostico, finalmente è giunta la risposta tanto attesa.
Non bisogna però dimenticare che il DNA umano è composto da oltre ventimila geni ma solo di una ridotta percentuale di essi gli scienziati conoscono la funzione; perciò il primo passo consiste nel saper scegliere il metodo di indagine genetica più appropriato: dai pannelli genetici al test di sequenziamento dell’intero genoma (senza dimenticare il sequenziamento dell’esoma), il potere di risoluzione varia enormemente ed è necessario partire da una anamnesi completa del paziente, accompagnata dalla ricostruzione della storia clinica della famiglia, per decidere quale strumento usare. Va da sé che per essere “investigatori del DNA” bisogna saper lavorare in squadra, in un contesto multidisciplinare.
I dati raccolti dagli specialisti dell’URDC vengono, infatti, inseriti all’interno di enormi banche dati e poi processati e confrontati con quelli di molti altri pazienti; è un lavoro complesso che richiede il supporto di programmi informatici all’avanguardia, software di intelligenza artificiale e reti neurali ben sviluppate. Genetisti e bioinformatici sono al lavoro per giorni di seguito sui dati e i risultati del loro sforzo vengono poi sottoposti a colleghi, esperti di malattie rare e genomica, direttori di laboratorio, analisti e altre figure scientifiche con un profilo di interesse per le malattie rare e la genetica che possono dare un contributo significativo al caso.
I consulenti genetici, in particolare, svolgono un ruolo primario nel procurarsi e interpretare le storie familiari e mediche, valutare le modalità di ereditarietà delle mutazioni, quantificare le possibilità di recidiva, facilitare il processo decisionale in merito alle opzioni di test genetici e spiegare i risultati di tali test ai rispettivi individui all’interno del più esteso contesto famigliare. È un ruolo importante che sta prendendo sempre più piede anche in Europa e in Italia e prevede un robusto bagaglio di competenze e la capacità di fare rete coi colleghi: due caratteristiche di enorme valore in questa fase.
Secondo il database Orphanet sono meno di dieci le persone nel mondo affette da ritardo della crescita da deficit del fattore di crescita insulino-simile 1 (IGF-1), la condizione di cui soffre la piccola Jordan e che i medici e i genetisti dell’URDC hanno saputo individuare per tempo. Attualmente la terapia è solo sintomatica e la presa in carico comprende principalmente il supporto nutrizionale e lo screening della sordità (un sintomo correlato alla malattia) ma si tratta di un importante punto di partenza. Il cammino è lungo e difficoltoso ma solo passando dalla tappa dell’identificazione del gene mutato si può sperare di procedere verso la ricerca di una cura.
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