Prof. Michele Reni - metastasi tumore al pancreas

Prof. Michele Reni (San Raffaele, Milano): “Fino al 95% dei pazienti con malattia in stadio iniziale presenta già cellule metastatiche circolanti nel sangue”

Tutte le cellule del nostro corpo - fatta eccezione per gli spermatozoi e le cellule uovo - possiedono lo stesso numero di cromosomi: 46. È una legge naturale le cui eccezioni si traducono in un anomalo funzionamento dell’organismo, se non addirittura nell’incompatibilità con la vita. Ebbene, nelle cellule tumorali che si moltiplicano in maniera frenetica può accadere che questo numero sia alterato. Ancora non si sa perché questo cumulo di errori avvantaggi il tumore anziché danneggiarlo ma i ricercatori stanno studiando attentamente i modelli di crescita e sviluppo dei tumori, come pure le loro capacità di formare metastasi: uno di quelli che più frequentemente tende a metastatizzare è il cancro al pancreas, tra i più aggressivi e difficili da sconfiggere.

METASTASI E MUTAZIONE: ADATTARSI A CONDIZIONI OSTILI

In una recente review uscita sulla rivista Cell la metastasi viene definita come una crescita delle cellule neoplastiche in sedi distanti rispetto a quella da cui ha avuto origine il tumore. Gli autori della review - due ricercatori del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York - descrivono la metastasi come “la manifestazione finale e più letale del cancro”. La comunicazione in campo oncologico prevede di scegliere con grande cura le parole da usare ma questa definizione non lascia spazio a equivoci e impone di considerare la metastasi non tanto come conseguenza di un tumore ma quasi come una sua nuova manifestazione.

“Una delle principali caratteristiche della cellula tumorale è di poter migrare verso nuovi tessuti”, spiega Michele Reni, Professore Associato di Oncologia all’Università Vita e Salute e Direttore del programma strategico di coordinamento clinico del Pancreas Center dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. “Ciò significa che esse possono spostarsi dal luogo di origine verso nuovi distretti dell’organismo viaggiando nel circolo sanguigno o attraverso i vasi linfatici e formando delle colonie più note come metastasi”. Le cellule metastatiche riescono a invadere i tessuti anche in profondità, alterando la funzionalità degli organi che intaccano e portando così una malattia inizialmente localizzata a trasformarsi in un problema sistemico. “Esiste una enorme eterogeneità nelle popolazioni cellulari metastatiche, tanto da generare mutazioni differenti non solo da una sede all’altra ma anche all’interno della medesima lesione”, prosegue Reni, che sottolinea la grande capacità di adattamento a microambienti diversi delle cellule metastatiche, le quali sanno sfruttare a proprio vantaggio tale condizione.

COME SI FORMANO LE METASTASI?

Nella review pubblicata su Cell si fa riferimento a tre fasi distinte: disseminazione, dormienza e colonizzazione. La prima fase è quella in cui le cellule viaggiano verso nuove destinazioni dell’organismo, spesso in piccoli gruppi o associate a altri elementi corpuscolari, come le piastrine o i globuli bianchi o, ancora, insieme a cellule stromali che le celano ai meccanismi di sorveglianza del sistema immunitario. La fase della dormienza - analoga a quella dei semi delle piante quando non germinano a casa di precise condizioni genetiche interne - prevede che le cellule rimangano in una sorta di equilibrio con il microambiente circostante. Di solito, infatti, i semi vanno in dormienza al presentarsi di variazioni ambientali accentuate e non prevedibili: una situazione simile a quella che incontrano le cellule passando da un distretto all’altro dell’organismo. Nelle fasi di disseminazione e dormienza le cellule metastatiche non sono individuabili. “Sono dette micrometastasi perché non hanno raggiunto la dimensioni degli agglomerati individuabili con strumenti come le PET, la TAC o la risonanza magnetica”, precisa Reni. “Ma ciò non significa che non siano presenti e, specie per alcune forme di tumore - fra cui quelle che interessano il pancreas - la strategia terapeutica da impostare deve tener conto di questo aspetto”.

IL CASO DELL’ADENOCARCINOMA PANCREATICO

Nel suo libro “L’imperatore del male - una biografia del cancro”, l’oncologo e Premio Pulitzer Siddhartha Mukherjee ha riportato il caso di una paziente di 76 anni affetta da adenocarcinoma del pancreas che, nonostante il ricorso alla terapia radiante e alla chemioterapia, si era trovata a fronteggiare una malattia metastatica contro la quale non c’erano più opzioni di cura. Le parole che Mukherjee utilizza sono ancora più incisive di quelle usate dai ricercatori del Memorial Sloan Kettering Cancer Center. “La capacità di produrre metastasi e raggiungere altri organi è legata al tipo stesso di tumore, con alcuni tumori che riescono a disseminare meno bene di altri”, precisa Reni. “Purtroppo, il tumore del pancreas è uno dei più efficienti in questo triste processo: si ritiene che in quasi il 95% dei pazienti affetti da adenocarcinoma del pancreas allo stadio iniziale siano già presenti cellule circolanti nel sangue”. Lo sviluppo di avanzate metodiche di ricerca, come la biopsia liquida, sta permettendo di individuare precocemente anche popolazioni molto ristrette di cellule in metastasi: sfortunatamente, questo metodo efficace in certi tipi di tumore, fra cui il carcinoma polmonare non a piccole cellule, non sta dando gli stessi risultati nel caso dell’adenocarcinoma pancreatico. “Nel caso dell’adenocarcinoma pancreatico”, puntualizza Reni, “i bersagli da individuare sono attualmente presenti in meno del 5% dei pazienti. Inoltre, a complicare la situazione c’è il fatto che nel 25-30% di quanti sono sottoposti a biopsia liquida il materiale raccolto risulti inadeguato o insufficiente per procedere con l’analisi”.

Il trattamento della malattia metastatica o supposta tale è essenzialmente di tipo farmacologico, attraverso la somministrazione di farmaci in grado di raggiungere qualunque distretto corporeo attraverso il flusso del sangue. “Per l’adenocarcinoma pancreatico il trattamento di elezione è la chemioterapia”, aggiunge l’oncologo milanese. “Per questo tumore assistiamo al capovolgimento del paradigma culturale secondo il quale la chirurgia ha un ruolo prioritario. Infatti, in presenza di una patologia metastatica la chirurgia è sconsigliata dal momento che la malattia è già altrove e quindi si espone il paziente ad un rischio senza che ne possa trarre un beneficio. Nel caso, invece, sino presenti delle micrometastasi, l’indebolimento del paziente e del suo sistema immunitario indotto dall’atto chirurgico faciliterebbe la crescita di quanto già presente in forma non visibile. È importante aver consapevolezza di questo per indirizzare rapidamente i pazienti verso gli oncologi ed evitare di perdere tempo prezioso proprio in una situazione nella quale non ci si possono permettere ritardi”.

La speranza è dunque che queste combinazioni di farmaci possano distruggere il maggior quantitativo possibile di cellule metastatiche e rallentare l’evoluzione del tumore. Successivamente, nell’ambito di discussioni multidisciplinari legate all’estensione iniziale della malattia, alla sua evoluzione in corso di trattamento e alla malattia residua, ma anche in base alla tollerabilità del trattamento da parte del paziente, si possono aprire nuovi scenari, con altre opportunità terapeutiche tra cui la chirurgia, la radioterapia o una combinazione di entrambe.

UN RISTRETTO VENTAGLIO DI OPZIONI E MOLTE PROSPETTIVE DI RICERCA

“Attualmente sono allo studio numerose strategie per bloccare la crescita del tumore del pancreas”, precisa Reni. “L’immunoterapia è una di quelle anche se questo tumore rimane l’unico per cui non sia stato ancora approvato l’utilizzo dei farmaci inibitori del checkpoint immunitario, giacché i risultati osservati in un sottogruppo di pazienti sono stati piuttosto deludenti, anche in presenza di instabilità dei microsatelliti, ad oggi considerato uno dei fattori positivi per il ricorso a tali trattamenti”.

Parallelamente, un PARP-inibitore (i-PARP) come olaparib - già in uso nel trattamento dei tumori della mammella, della prostata e dell’ovaio - non ha ottenuto la rimborsabilità dall’Agenzia Italiana per il Farmaco (AIFA) in quanto non avrebbe dimostrato “né di prolungare la sopravvivenza né di migliorare la qualità della vita dei pazienti”. Tuttavia, secondo gli studi, il farmaco anche nel caso del cancro del pancreas ha mostrato un certo vantaggio in termini di sopravvivenza ed è stato di conseguenza ammesso alla rimborsabilità in vari Paesi europei: l’indicazione approvata è come terapia di mantenimento nei pazienti BRCA-mutati con malattia metastatica non in progressione dopo almeno 4 mesi di chemioterapia contenente un sale del platino. Tanto è bastato per far infuriare le associazioni di pazienti e suscitare il disappunto di molti medici specialisti, aprendo di fatto il “caso olaparib”.

L’attenzione potrebbe spostarsi dunque sulle terapie avanzate come le terapie a base di cellule CAR-T, allo studio anche contro alcuni sottotipi di adenocarcinoma del pancreas. “Le CAR-T presuppongono l’esistenza di bersagli specifici sufficientemente diffusi da poter essere colpiti”, conclude Reni. “Inoltre, comportano un certo qual grado di tossicità e sarà necessario capire se, oltre a essere efficaci, saranno anche sicure e in grado di garantire una qualità di vita accettabile ai malati. In ogni caso, le dimostrazioni di efficacia sull’uomo dei meccanismi indagati nei centri di ricerca necessiteranno ancora di tempo e di cospicui investimenti”. Una conclusione che riporta alla necessità di investire nell’approfondimento dei meccanismi biologici della malattia e dei suoi punti deboli per progettare opzioni di contrasto efficienti e sicure.

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