Scheletro

In uno studio di Fase III, il nuovo farmaco ha dimostrato di ridurre maggiormente la gravità del rachitismo e i livelli di fosfatasi alcalina

Philadelphia (USA) – Rachitismo nei bambini in crescita e osteomalacia negli adulti: sono le conseguenze alle quali vanno incontro le persone affette da ipofosfatemia legata all'X (XLH), la più comune forma di rachitismo genetico, caratterizzata da basse concentrazioni circolanti di fosforo che compromettono la mineralizzazione scheletrica. La malattia è causata da mutazioni nel gene PHEX che, sebbene il meccanismo sia incerto, portano ad un aumento delle concentrazioni plasmatiche del “fattore di crescita dei fibroblasti 23” (FGF23), il membro meglio caratterizzato di una famiglia di ormoni chiamati fosfatonine, che regolano il fosfato. L'eccesso di FGF23 determina la maggior parte delle caratteristiche biochimiche e sistemiche della malattia, sebbene altri fattori contribuiscano alla fisiopatologia generale.

Il trattamento convenzionale per questa malattia consiste in dosi orale multiple e giornaliere di sali di fosfato e vitamina D attiva. La definizione dei dosaggi ottimali e la compliance da parte dei pazienti sono le maggiori sfide legate a questa terapia e sono responsabili, in larga misura, di eventuali esiti sfavorevoli. Il trattamento, infatti, aumenta anche le concentrazioni plasmatiche di FGF23, un effetto controproducente che è spesso associato a ipercalcemia, iperparatiroidismo e calcificazione renale. Infine, la terapia convenzionale non ripristina la normale omeostasi minerale.

Oggi, però, per l’ipofosfatemia legata all’X esiste un nuovo farmaco, l’anticorpo monoclonale burosumab, sviluppato per affrontare in modo mirato la causa della malattia attraverso la riduzione dei livelli di FGF23 circolante nell’organismo. Sulla base dei risultati positivi ottenuti in diversi studi clinici, il medicinale, somministrabile tramite iniezione sottocutanea, è stato approvato sia negli Stati Uniti che in Europa, e da qualche mese è ormai disponibile anche in Italia.

Di recente, sulla rivista The Lancet sono stati pubblicati i risultati di un’ulteriore sperimentazione clinica di Fase III in cui l’anticorpo monoclonale burosumab è stato posto direttamente a confronto con la terapia convenzionale per la XLH. Lo studio internazionale, randomizzato e in aperto, guidato dal prof. Erik Imel, della University School of Medicine (Indiana, USA), ha arruolato 61 bambini, di età compresa tra 1 e 12 anni, tutti affetti da ipofosfatemia legata all'X geneticamente confermata e già sottoposti a trattamento orale con sali di fosfato e vitamina D attiva. I partecipanti sono stati assegnati in modo casuale a ricevere il farmaco burosumab (a partire da 0,8 mg/kg ogni 2 settimane) o a continuare con la terapia convenzionale, per un periodo di 64 settimane.

Dopo 40 settimane di trattamento, i pazienti nel gruppo burosumab hanno evidenziato una diminuzione significativamente maggiore nella gravità del rachitismo rispetto ai pazienti nel gruppo sottoposto a terapia convenzionale. Anche le concentrazioni sieriche di fosfatasi alcalina sono maggiormente diminuite nei pazienti che hanno ricevuto l'anticorpo monoclonale. Nello studio, la valutazione della completa guarigione del rachitismo richiedeva un accordo fra tre radiologi pediatrici ed era basato sull’esame di radiografie del polso e del ginocchio, ma nessun paziente, in entrambi i gruppi, ha raggiunto questo obiettivo dopo 40 settimane di trattamento.

Tuttavia, nel gruppo trattato con burosumab, le concentrazioni sieriche di fosforo e il suo riassorbimento renale si sono normalizzati rispetto alla terapia convenzionale. I pazienti che hanno ricevuto il farmaco, inoltre, hanno mostrato un lieve miglioramento nei punteggi relativi all'altezza, oltre a progressi funzionali significativamente maggiori nella mobilità (valutati dal test del cammino in 6 minuti).

Per quanto riguarda la sicurezza, burosumab, non ha influenzato il calcio sierico e urinario, né ha causato nefrocalcinosi (accumulo di calcio nei reni). I principali eventi avversi correlati al farmaco sono stati quelli associati alla somministrazione sottocutanea del medicinale, ossia reazioni nel sito di iniezione (52% dei pazienti) e ipersensibilità al principio attivo (28% dei pazienti).

“Nonostante questi notevoli miglioramenti, alcune limitazioni della sperimentazione moderano il nostro entusiasmo”, scrivono Rebecca J. Gordon e Michael A. Levine, della University of Pennsylvania Perelman School of Medicine di Philadelphia, nel loro commento allo studio, pubblicato sempre sulla rivista The Lancet. Le limitazioni a cui si riferiscono i due esperti sono tutte relative alla valutazione della reale efficacia della terapia tradizionale per la XLH. “In primo luogo, tutti i pazienti presentavano rachitismo da moderato a grave, nonostante il precedente trattamento con terapia convenzionale: non sappiamo perché questa non abbia avuto successo, ma non dovrebbe sorprendere che molti di quelli assegnati in modo casuale a continuare la terapia convenzionale abbiano mostrato un miglioramento scarso o nullo. In secondo luogo, le dosi di fosfato e vitamina D attiva che i pazienti hanno ricevuto avevano una grande variabilità. Inoltre, non è stato indicato il numero di dosi saltate, ma solo il numero di giorni in cui i pazienti non hanno ricevuto alcuna terapia”, proseguono gli autori.

“In terzo luogo, durante lo studio, sebbene i valori medi dell'ormone paratiroideo siano rimasti entro l'intervallo normale, in alcuni pazienti queste concentrazioni sembrano essere aumentate, fatto che può incrementare la fosfaturia (presenza di fosfati nelle urine) e compromettere la gestione dei pazienti nel gruppo sottoposto a terapia convenzionale, riducendo le probabilità che queste persone raggiungano un significativo miglioramento osseo. Tuttavia, queste limitazioni servono anche a evidenziare le difficoltà nella gestione della terapia convenzionale per i pazienti con ipofosfatemia legata all'X”, sottolineano Gordon e Levine.

Il lavoro condotto dal team del prof. Imel – proseguono i due esperti – fornisce nuovi dati rassicuranti sui rischi e benefici di burosumab rispetto alla terapia convenzionale. In ogni caso, dato il costo del farmaco e la mancanza di dati sulla sua sicurezza a lungo termine, suggeriamo di condurre un’ulteriore sperimentazione di confronto con la terapia convenzionale che coinvolga bambini con XLH mai trattati, e con rachitismo di gravità da lieve a moderata. Eventualmente, i pazienti che mostrassero un miglioramento solo marginale dopo 8-12 mesi di terapia convenzionale, a causa della scarsa compliance o della resistenza al trattamento, potrebbero poi passare alla terapia con burosumab”, concludono Gordon e Levine. “Naturalmente, i pazienti con malattia molto grave potrebbero trarre maggiori benefici dalla somministrazione precoce di questo farmaco”.

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