Il Dott. Stefano Mora (Milano): “Distinguere tra le varie forme di rachitismo ipofosfatemico è molto complesso: a fare la differenza è l’analisi molecolare”
In letteratura la fragilità dell’osso è una delle più chiare manifestazioni di malattia ed è sempre accompagnata da un’aura di debolezza e di caducità. Ma le basi fisiologiche di questo sintomo - spesso causa di fratture e fonte di dolore - risalgono a diverse condizioni: tra le principali figurano i rachitismi ipofosfatemici. A questo gruppo di patologie rare appartiene anche il rachitismo ipofosfatemico autosomico recessivo (ARHR), contraddistinto da un difetto a livello del trasporto del fosfato e da un alterato metabolismo della vitamina D, l’ormone chiave nel processo di mineralizzazione delle ossa: ciò significa che i pazienti presentano gravi alterazioni scheletriche, con ossa poco calcificate, e un notevole ritardo di crescita.
A rendere complicata la realtà dei rachitismi ipofosfatemici è il fatto che hanno origine diversa e ciò rende estremamente arduo fare una diagnosi differenziale. “Il tratto principale del rachitismo ipofosfatemico è la riduzione del fosfato ematico, o ipofosfatemia, dovuta a specifiche mutazioni genetiche”, spiega il dott. Stefano Mora, del Laboratorio di Endocrinologia Infantile presso il Dipartimento di Pediatria dell’IRCSS Ospedale San Raffaele di Milano. “Esistono, perciò, svariate tipologie di ipofosfatemia e ognuna di esse presenta caratteristiche cliniche e biochimiche indistinguibili dalle altre, per cui è impossibile distinguerle sulla base dei soli dati clinici o di laboratorio”.
Generalmente, i primi segni del rachitismo ipofosfatemico compaiono già intorno ai 12-18 mesi perché, rispetto ai coetanei, i bambini che ne sono affetti presentano una statura più bassa, dovuta all’incurvamento delle ossa lunghe, le quali risultano più sottili e fragili, e pertanto più soggette a fratture. Questi bambini possono mostrare anche debolezza, crampi, dolore alle ginocchia e una tipica andatura barcollante, conseguenza di anomalie ossee a livello dell’anca. Inoltre, possono presentare un anormale sviluppo del cranio, la comparsa di dolori anche a livello del dorso e delle spalle e un ritardo nell’eruzione dei denti. Sintomi come quelli elencati devono quindi indurre i genitori a far visitare i loro figli da un esperto.
“Per iniziare a fare diagnosi di rachitismo ipofosfatemico si esegue una rigorosa visita clinica e si richiedono alcuni esami di laboratorio, fra cui il dosaggio dei livelli ematici e l’escrezione urinaria del fosforo e del calcio”, precisa Mora. “Inoltre, è opportuno valutare l’attività della fosfatasi alcalina (ALP), dosare il paratormone (PTH) e la vitamina D, sia la 25-idrossi-vitamina D che la 1,25- diidrossi-vitamina D. Infatti, per prima cosa è opportuno capire se non si tratti di una forma di rachitismo nutrizionale da deficit di vitamina D. Qualora la vitamina D sia nell’intervallo di normalità ma si osservi una diminuzione del riassorbimento di fosfato a livello del tubulo renale, con aumento della ALP, si può considerare di trovarsi di fronte a una forma di rachitismo ipofosfatemico”.
A questo punto arriva la parte più difficile, poiché bisogna individuare la specifica forma di malattia. “Per prima cosa, si ricorre all’analisi molecolare per indagare il gene PHEX, implicato nella regolazione dell’escrezione renale dei fosfati e nel metabolismo della vitamina D”, prosegue l’esperto milanese. “Il gene PHEX è responsabile dell’ipofosfatemia legata all’X (XLH), detta anche rachitismo ipofosfatemico legato all’X. In oltre l’86% dei casi le alterazioni riscontrate all’analisi molecolare sono riferite a questo gene, di cui sono note ormai più di un centinaio di mutazioni. Se non si trovano variazioni in PHEX si continua con l’analisi degli altri geni. È procedendo in questo modo che io e il mio team di ricerca siamo riusciti a porre la diagnosi di rachitismo ipofosfatemico autosomico recessivo di tipo 2 (ARHR2) in una giovane donna, risultata positiva ad una mutazione nel gene ENPP1. È stato così possibile dare un nome alla sua malattia e a quella di sua figlia”.
Il rachitismo ipofosfatemico autosomico recessivo viene classificato in due forme: il tipo 1, che è dovuto a mutazione del gene DMP1, e il tipo 2, che è associato, appunto, a mutazione di ENPP1, un gene che è correlato anche allo sviluppo di un’altra patologia rara, la calcificazione arteriosa generalizzata infantile di tipo 1 (GACI1). La GACI è una grave condizione che solitamente colpisce i neonati entro i 6 mesi di vita, provocando calcificazione delle arterie e delle articolazioni, distress respiratorio, ipertensione arteriosa polmonare, perdita dell’udito e gravi problematiche cardiache. Spesso, i neonati che sopravvivono alla GACI1 finiscono poi per sviluppare anche l’ARHR2, sebbene quest’ultima patologia possa manifestarsi anche in pazienti senza una precedente storia di GACI.
In generale, le manifestazioni cliniche del rachitismo ipofosfatemico autosomico recessivo variano moltissimo, da alcune forme molto gravi, che non rispondono alle terapie, ad altre decisamente meno aggressive. Pertanto, una volta identificato un paziente bisogna procedere con l’indagine sui familiari, realizzando un albero genealogico completo per capire come avvenga la trasmissione della patologia da una generazione all’altra.
“Il trattamento del rachitismo ipofosfatemico prevede la somministrazione di fosfati e vitamina D per via orale”, precisa Mora. “Purtroppo, si tratta di una terapia non facile da seguire perché, a causa degli effetti collaterali gastrointestinali che può provocare, il fosfato non può essere assunto in una sola volta e va frazionato in 6-8 dosi giornaliere, che il paziente deve continuare ad assumere fino all’età adulta. I sali di fosfato sono fondamentali per migliorare l’assorbimento intestinale di calcio e di fosforo, rafforzando così l’osso, ma serve anche la contemporanea assunzione della vitamina D”.
Questo regime terapeutico, già di per sé complesso da portare avanti nel tempo, va quindi mantenuto dal momento della diagnosi fino almeno all’età adulta, quando molti pazienti, purtroppo, iniziano ad avere ‘lacune’ nel percorso di monitoraggio a causa della mancanza di figure mediche di riferimento: in molti centri, addirittura, gli adulti affetti da rachitismo ipofosfatemico vengono seguiti dagli endocrinologi o dai nefrologi pediatrici. “Per questo motivo, occorre individuare le giuste figure di riferimento per il paziente adulto - sottolinea Mora - e soprattutto definire un percorso strutturato per il monitoraggio dei pazienti nella fase di transizione dall’età pediatrica a quella adulta. Infine, servono sempre maggiori sforzi nella ricerca di nuove ed efficaci terapie per queste patologie rare”.
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