Francesco Gallo

Attraverso tre generazioni, i membri di questo nucleo familiare hanno vissuto sulla propria pelle i notevoli progressi raggiunti nel trattamento della patologia

Per comprendere al meglio una malattia genetica ereditaria occorrerebbe seguirne l’evoluzione negli anni, non solamente nella dimensione dell’individuo che ne è affetto ma anche in quella più estesa dei suoi figli e poi nipoti, fino a ricostruire un albero genealogico che mostri come il gene della malattia sia capace di ‘passare’ da una generazione all’altra. Una filosofia che in certi casi, come quello di una famiglia del brindisino affetta da ipofosfatemia legata all’X (XLH), può fornire molte ed importanti informazioni sulla natura della malattia e sull’evoluzione dei trattamenti.

Il dott. Francesco Gallo, dirigente medico presso l’U.O.C. di Pediatria dell’Ospedale Perrino di Brindisi, ha avuto modo di incontrare alcuni membri di questa famiglia affetta da XLH e di seguirli nel tempo, monitorando le condizioni dei pazienti e osservando il miglioramento dei mezzi diagnostici e terapeutici in un arco temporale di circa vent’anni. “Questa famiglia piuttosto numerosa ha attraversato una fase storica”, afferma Gallo, che è anche Principal Investigator del Registro Internazionale dedicato all’ipofosfatemia legata al cromosoma X. “Ho avuto la possibilità di visitare per la prima volta coloro che adesso sono genitori in un momento in cui la terapia per la XLH era scarsamente efficace e prevedeva solo l’assunzione di fosforo e vitamina D, senza intervenire sulle cause della patologia stessa”. Infatti, l’ipofosfatemia legata all’X è una rara forma genetica di rachitismo contraddistinta da un difetto di trasporto del fosfato a livello dei tubuli renali: questo comporta un’alterazione del metabolismo del fosforo e anche della vitamina D, a cui si associa un ridotto riassorbimento renale del fosforo stesso. Di conseguenza, coloro che ne soffrono incorrono in gravi affezioni scheletriche.

La famiglia in questione si sviluppa in due grandi rami ed è composta da 12 adulti e 4 bambini affetti da ipofosfatemia legata all’X, spalmati su tre generazioni. “Ho visto i primi bambini all’inizio degli anni Duemila”, ricorda Gallo. “Erano poco più che adolescenti e sono stati accompagnati dalla madre (che ora è divenuta nonna) per capire come affrontare le problematiche agli arti inferiori e il dolore osseo. Infatti, fino a vent’anni fa, il primo approccio alla malattia era di tipo ortopedico e aveva la funzione di migliorare, per quanto possibile, la postura e la deambulazione. Tuttavia, l’ortopedico interpellato dalla signora, oltre a raccomandare di far perdere peso ai bambini per alleggerire il carico sulle ginocchia, le ha suggerito di rivolgersi alla nostra unità per valutare le opportunità terapeutiche disponibili”. Allora, il trattamento consisteva nella somministrazione di fosfato e vitamina D per via orale. “Avevamo un preparato dal gusto sgradevole che i bambini avrebbero dovuto assumere 4-5 volte al giorno, in aggiunta alla vitamina D, e che richiedeva un’adeguata compliance da parte del paziente”, spiega Gallo. “Il trattamento, inoltre, non era in grado di mutare in maniera significativa le condizioni dei pazienti perché non interveniva sulla patogenesi dell’ipofosfatemia: chiunque si sarebbe scoraggiato di fronte a quella prescrizione”. Infatti, per alcuni anni, il dott. Gallo ha perso i contatti con i pazienti fino a quando, più di recente, quegli stessi bambini - divenuti a loro volta genitori - sono tornati da lui con i propri figli.

Nei genitori non era stata posta una diagnosi genetica perché, all’epoca, il meccanismo esatto con cui si realizzava questa forma di rachitismo non era del tutto noto. “Quando abbiamo sottoposto a indagine genetica uno di questi bambini, che presentava gli stessi sintomi della madre, l’esito è stato negativo”, ricorda Gallo. “Fu un risultato spiazzante perché il bambino presentava un quadro clinico che deponeva nettamente a favore della XLH e non ci spiegavamo per quale ragione mancasse un riscontro genetico. Per fortuna, con gli avanzamenti tecnologici nel campo della biologia molecolare le cose sono cambiate e, quando sono arrivati gli altri bambini, le metodiche di ricerca della mutazione del gene PHEX, che è alla base della malattia, erano state aggiornate, cosicché in essi questa mutazione è stata prontamente identificata. Perciò abbiamo rivalutato anche il primo bambino, il quale è risultato subito positivo”. Il miglioramento della tecnologia ha dunque permesso di ottenere la conferma genetica della diagnosi clinica.

Abbiamo iniziato a somministrare anche a loro una terapia analoga a quella dei genitori, con l’unica differenza che il farmacista del nostro ospedale era riuscito a trovare delle compresse di fosfato da assumere solo due volte al giorno”, spiega il pediatra pugliese. “Poi, finalmente, c’è stato un reale cambiamento terapeutico: l’arrivo di burosumab, un anticorpo monoclonale che agisce sul meccanismo che determina la perdita di fosforo nelle urine. Questo farmaco ha realmente cambiato le condizioni e le prospettive di vita dei bambini, riducendo le deformità ossee e i dolori da cui erano affetti”. I più grandi di loro, che già mostravano difficoltà motorie importanti e necessitavano di tutori o sedie a rotelle per muoversi, a distanza di due anni dall’inizio della terapia hanno abbandonato questi ausili per tornare a muoversi in maniera indipendente. “In soli due anni hanno avuto un enorme miglioramento della qualità di vita”, spiega Gallo che, per certificare questa affermazione, è solito mostrare il filmato del test del cammino in 6 minuti di una sua paziente: questo test viene infatti usato per la valutazione dell’efficacia della terapia. “La bambina ha quasi 14 anni ed è arrivata da noi sulla sedia a rotelle”, precisa Gallo. “Aveva un’insegnate di sostegno che l’aiutava a scuola quando doveva muoversi e andare in bagno. Ebbene, dopo solo un anno di terapia con burosumab è stata in grado non solo di camminare, ma anche di correre e giocare con la sorella”. Burosumab è un anticorpo monoclonale anti-FGF23 che agisce bloccando la proteina responsabile della perdita di fosforo nelle urine, colpendo il meccanismo patologico che è alla base della XLH. Inoltre, si somministra per via sottocutanea due volte al mese, decisamente più facile da tollerare rispetto alla ripetuta ingestione quotidiana di soluzioni al fosforo dalla scarsa palatabilità.

“È necessario un periodo di osservazione più lungo ma grazie a burosumab stiamo già cominciando a vedere una riduzione del varismo delle ginocchia, con le gambe dei pazienti che si normalizzano anche nell’aspetto”, aggiunge ancora Gallo. “Questo farmaco rappresenta un’autentica rivoluzione per l’ipofosfatemia legata all’X e tutto ciò si è realizzato in pochissimo tempo, specialmente in rapporto all’età dei genitori di questi bambini”. La prospettiva è che anche gli adulti vi possano accedere. “Nell’adulto la deformità scheletrica è ormai stabilizzata ma ci si aspetta la riduzione, fino alla scomparsa, dei dolori ossei, con un minor rischio di microfratture e un miglioramento della capacità di movimento”, conclude Gallo. “Anche negli adulti, quindi, ci attendiamo un diverso ma significativo incremento della qualità di vita”.

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